Lubo Moser (Franz Rogowski) è un nomade, un artista Jenisch che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (noto come Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i “diversi” come lui.
Giorgio Diritti, alfiere già in passato di storie di emarginazione e di focus su porzioni di umanità da sottrarre all’oblio della Storia, per il suo nuovo film, Lubo, presentato in Concorso a Venezia 80, è stato ispirato dalla lettura del romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, che a suo dire gli ha svelato delle vicende poco conosciute accadute in Svizzera per cinquanta anni, spingendolo anche a riflettere sul senso di giustizia, sulle istituzioni, sul senso dell’educare e dell’amare.
Lubo è un film cristallino, non solo nella genesi ma anche negli intenti, che sono soprattutto quelli di denunciare, nell’ambito di un racconto a carattere bellico e storico, ciò che hanno subito le famiglie vagabonde che si sono viste strappare i loro figli, a causa di leggi discriminatorie che hanno causato degli strascichi profondi nel corso del tempo, ben oltre il momento puntuale in cui sono state concepite e ciecamente applicate.
Lubo, dal canto suo, è un film che si prende abbondantemente il suo tempo per scandire tutte le coordinate di tale vicenda e che, nel corso delle sue tre ore di durata, oscilla tra vari registri. Diritti tiene la barra dritta del racconto morale, sfiora l’affresco di più ampia portata e, attraverso una messa in scena sostenuta, evita le trappole dello spaccato oleografico. Così facendo trova un respiro cinematografico per certi versi rigido ma anche più marcato rispetto ai suoi precedenti lavori, già rintracciabile nel precedente Volevo nascondermi, film dedicato alla figura del pittore Antonio Ligabue, interpretato da Elio Germano.
In certi momenti si entra anche in una dimensione da cinema civile, in cui rabbia e sgomento fanno il paio con l’ambiguità e il dolore, senza tuttavia smarrire mai la speranza e la poesia. Ad aiutare Diritti c’è soprattutto la recitazione di Franz Rogowski, attore tedesco che ha frequentato tantissimo, di recente, il cinema italiano, da Freaks Out a Disco Boy, e che qui si spende in un’interpretazione di notevole ed epidermica sensibilità, cui si affianca meravigliosamente la splendida prova di Valentina Bellé.
Diritti, che aveva già raccontato della Seconda guerra mondiale ne L’uomo che verrà, film sulla strage di Marzabotto, nel narrare della “purificazione etnica” di cui si rese responsabile la Svizzera per circa mezzo secolo, dal 1925 al 1973, al fine di togliere i bambini nomadi alle loro famiglie e affidarli a istituti e privati, abbraccia anche delle tonalità da film d’indagine e da thriller dell’anima, con qualche spruzzata – perfino – di bondismo rigorosamente vintage e d’antan. Lo fa mettendosi al servizio, pur con i limiti della ricostruzione d’epoca a tratti paludata, di un’opera dai moniti civili e politici esemplari.
Foto: Indiana Production, Aranciafilm, Rai Cinema, Hugofilm, Proxima Milano
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