Figli, la recensione dell'ultimo film di Mattia Torre
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Figli, la recensione dell’ultimo film di Mattia Torre

Arriverà nelle sale il 23 gennaio la commedia agrodolce con protagonisti Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi nei panni di due genitori alle prese con l'arrivo del secondo figlio

Figli, la recensione dell’ultimo film di Mattia Torre

Arriverà nelle sale il 23 gennaio la commedia agrodolce con protagonisti Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi nei panni di due genitori alle prese con l'arrivo del secondo figlio

Figli
PANORAMICA
Regia (3)
Sceneggiatura (4.5)
Interpretazioni (3.5)
Fotografia (3)
Montaggio (3.5)
Colonna sonora (3)

Nicola (Valerio Mastandrea) e Sara (Paola Cortellesi) hanno scoperto a loro spese uno dei segreti meglio custoditi della contemporaneità: fare il secondo figlio, nell’Italia della natalità zero e della precarietà come regola di vita, rischia di innescare una bomba ad orologeria, e aprire il varco ad una serie di incognite spesso difficili da gestire. La relazione fra Nicola e Sara, teoricamente imperniata su una divisione dei compiti 50/50, fa sentire ognuno di loro non riconosciuto nei suoi sforzi e gravato dal 200% delle incombenze familiari. Che fare allora quando tutto quello che vorresti è saltare fuori dalla finestra di casa tua e abbandonare il campo?

Figli è l’ultimo regalo di Mattia Torre, la sceneggiatura (e in parte anche la regia) alla quale la penna italiana migliore della sua generazione ha lavorato fino a quando ha potuto, non riuscendo a finirlo a causa della malattia di lungo corso che l’ha stroncato nel luglio del 2019. A completarlo è intervenuto l’amico Giuseppe Bonito, ma siamo a tutti gli effetti al cospetto di un film di Mattia Torre. All’ennesimo frutto della sua lucidità e di un talento cristallino, costantemente in bilico tra la risata sferzante e delle ondate impreviste e proprio per questo salvifiche di inattesa malinconia. 

Per chi conosce il lavoro di Torre sono qualità che non stupiscono affatto, a partire da Boris per arrivare a La linea verticale, in cui attraverso il sodale e alter ego Valerio Mastandrea aveva narrato il proprio male. Nella scrittura di quest’autore c’è infatti da sempre un sottilissimo equilibrio tra la commedia e la tragedia, che si guardano allo specchio vicendevolmente fino a vedere sfumare i rispettivi contorni. Ma anche un brio surreale incline a fare piazza pulita delle formule più stantie (“quelle buone per i quotidiani online”, come dice Nicola). Alla ricerca di una verità e una spontaneità tutte sue, pronte ad abbracciare il paradosso dello stare al mondo, galleggiando a vista in un avvicendarsi di mediocrità umana troppo umana. 

Figli si concentra sulla genitorialità, sulle ansie e le nevrosi del ritrovarsi nuovamente genitori oltre i quarant’anni, costretti ad azzerare un’altra volta le proprie certezze per far fronte all’arrivo di un nuovo figlio. Il punto di partenza è il celebre monologo di Torre I figli ti invecchiano, partitura minima da cui si sviluppa una sceneggiatura a orologeria in cui le gag si susseguono con acutissima intelligenza. Torre non sembra guardare solo ai genitori colmi di paturnie e insicurezze che racconta, ma il suo sguardo sembra planare sulle cose con un cinismo tenue e affettuoso che non risparmia il costume, la collettività, gli scontri generazionali. 

I genitori di oggi sono infatti anche i figli di ieri, gli eredi di quei baby boomers che hanno mandato in porto la loro esistenza con un corredo di sicurezze assai più granitiche. Il monologo in chiave mostruosa e grottesca del personaggio della mamma della Cortellesi, in tal senso, è un pezzo comico eccezionale che, attraverso la deformazione, si fa istantanea isterica di qualcosa di più profondo e radicato, di un sentimento del tempo e della società. E la cosa stupefacente è che Figli è pieno di questi momenti ora taglienti ora illuminanti, infarcito com’è di tic rispetto ai quali Torre non arretra. Caricandole, semmai, di una svagatezza solo apparente, che al massimo è quella di Mastandrea (e quella di chi guarda), perché i tempi comici delle trovate e dell’andirivieni di situazioni sono invece studiati al millimetro. 

Diviso in capitoli dalle denominazioni eloquenti, come fossero atti teatrali (Il sonno, La pediatra guru, I suoceri, Josephina, La domenica, Le regole, La crisi, Le cose piccole), Figli convince su tutta la linea e getta addosso un rimpianto sterminato per ciò che Torre avrebbe ancora potuto fare, dire e produrre. Lascia ammirati per il modo in cui rende apprezzabili, credibili e perfino esplosive le forzature più iperrealistiche (il limbo bianco in cui i personaggi talvolta si muovono, i pianti del piccolo Pietro rimpiazzati dalla sonata no.8 Patetique di Beethoven) e ci trascina in un catalogo universale di miserie buffe in cui è impossibile non riconoscersi, da genitori o da figli che sperano di cambiare le sorti della propria famiglia con un semplicissimo e straziante disegno del Titanic. 

Che si parli delle famigerate chat di classe su Whatsapp, di “cene di Carnevale” vestiti da Sposa di Kill Bill e da Drugo di Arancia Meccanica (con accanto a sé Jack Sparrow boriosi e petulanti) o di pediatre placide e inattaccabili come quella interpretata da Daria Deflorian, a emergere è dunque sempre il tocco di Torre, insieme alla grazia dolce e disperata con cui ha saputo ritrarre la sua generazione di italiani, provando a resistere (e a restare) forte di un sarcasmo rigenerante, mai di facciata né a buon mercato. Un antidoto al pressappochismo imperante, tanto sul versante pubblico che su quello privato e sentimentale, che è e rimarrà, fuor di retorica, il suo lascito più prezioso. 

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