Nicola (Valerio Mastandrea) e Sara (Paola Cortellesi) hanno scoperto a loro spese uno dei segreti meglio custoditi della contemporaneità: fare il secondo figlio, nell’Italia della natalità zero e della precarietà come regola di vita, rischia di innescare una bomba ad orologeria, e aprire il varco ad una serie di incognite spesso difficili da gestire. La relazione fra Nicola e Sara, teoricamente imperniata su una divisione dei compiti 50/50, fa sentire ognuno di loro non riconosciuto nei suoi sforzi e gravato dal 200% delle incombenze familiari. Che fare allora quando tutto quello che vorresti è saltare fuori dalla finestra di casa tua e abbandonare il campo?
Figli è l’ultimo regalo di Mattia Torre, la sceneggiatura (e in parte anche la regia) alla quale la penna italiana migliore della sua generazione ha lavorato fino a quando ha potuto, non riuscendo a finirlo a causa della malattia di lungo corso che l’ha stroncato nel luglio del 2019. A completarlo è intervenuto l’amico Giuseppe Bonito, ma siamo a tutti gli effetti al cospetto di un film di Mattia Torre. All’ennesimo frutto della sua lucidità e di un talento cristallino, costantemente in bilico tra la risata sferzante e delle ondate impreviste e proprio per questo salvifiche di inattesa malinconia.
Per chi conosce il lavoro di Torre sono qualità che non stupiscono affatto, a partire da Boris per arrivare a La linea verticale, in cui attraverso il sodale e alter ego Valerio Mastandrea aveva narrato il proprio male. Nella scrittura di quest’autore c’è infatti da sempre un sottilissimo equilibrio tra la commedia e la tragedia, che si guardano allo specchio vicendevolmente fino a vedere sfumare i rispettivi contorni. Ma anche un brio surreale incline a fare piazza pulita delle formule più stantie (“quelle buone per i quotidiani online”, come dice Nicola). Alla ricerca di una verità e una spontaneità tutte sue, pronte ad abbracciare il paradosso dello stare al mondo, galleggiando a vista in un avvicendarsi di mediocrità umana troppo umana.
Figli si concentra sulla genitorialità, sulle ansie e le nevrosi del ritrovarsi nuovamente genitori oltre i quarant’anni, costretti ad azzerare un’altra volta le proprie certezze per far fronte all’arrivo di un nuovo figlio. Il punto di partenza è il celebre monologo di Torre I figli ti invecchiano, partitura minima da cui si sviluppa una sceneggiatura a orologeria in cui le gag si susseguono con acutissima intelligenza. Torre non sembra guardare solo ai genitori colmi di paturnie e insicurezze che racconta, ma il suo sguardo sembra planare sulle cose con un cinismo tenue e affettuoso che non risparmia il costume, la collettività, gli scontri generazionali.
I genitori di oggi sono infatti anche i figli di ieri, gli eredi di quei baby boomers che hanno mandato in porto la loro esistenza con un corredo di sicurezze assai più granitiche. Il monologo in chiave mostruosa e grottesca del personaggio della mamma della Cortellesi, in tal senso, è un pezzo comico eccezionale che, attraverso la deformazione, si fa istantanea isterica di qualcosa di più profondo e radicato, di un sentimento del tempo e della società. E la cosa stupefacente è che Figli è pieno di questi momenti ora taglienti ora illuminanti, infarcito com’è di tic rispetto ai quali Torre non arretra. Caricandole, semmai, di una svagatezza solo apparente, che al massimo è quella di Mastandrea (e quella di chi guarda), perché i tempi comici delle trovate e dell’andirivieni di situazioni sono invece studiati al millimetro.
Diviso in capitoli dalle denominazioni eloquenti, come fossero atti teatrali (Il sonno, La pediatra guru, I suoceri, Josephina, La domenica, Le regole, La crisi, Le cose piccole), Figli convince su tutta la linea e getta addosso un rimpianto sterminato per ciò che Torre avrebbe ancora potuto fare, dire e produrre. Lascia ammirati per il modo in cui rende apprezzabili, credibili e perfino esplosive le forzature più iperrealistiche (il limbo bianco in cui i personaggi talvolta si muovono, i pianti del piccolo Pietro rimpiazzati dalla sonata no.8 Patetique di Beethoven) e ci trascina in un catalogo universale di miserie buffe in cui è impossibile non riconoscersi, da genitori o da figli che sperano di cambiare le sorti della propria famiglia con un semplicissimo e straziante disegno del Titanic.
Che si parli delle famigerate chat di classe su Whatsapp, di “cene di Carnevale” vestiti da Sposa di Kill Bill e da Drugo di Arancia Meccanica (con accanto a sé Jack Sparrow boriosi e petulanti) o di pediatre placide e inattaccabili come quella interpretata da Daria Deflorian, a emergere è dunque sempre il tocco di Torre, insieme alla grazia dolce e disperata con cui ha saputo ritrarre la sua generazione di italiani, provando a resistere (e a restare) forte di un sarcasmo rigenerante, mai di facciata né a buon mercato. Un antidoto al pressappochismo imperante, tanto sul versante pubblico che su quello privato e sentimentale, che è e rimarrà, fuor di retorica, il suo lascito più prezioso.
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