Gabriele Salvatores: «Io non ho paura»
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Gabriele Salvatores: «Io non ho paura»

Il regista premio Oscar ci racconta la genesi de Il ragazzo invisibile, il primo vero cinecomic all’italiana. E di quante resistenze ancora debba affrontare da noi chi vuole provare a fare un cinema diverso…

Gabriele Salvatores: «Io non ho paura»

Il regista premio Oscar ci racconta la genesi de Il ragazzo invisibile, il primo vero cinecomic all’italiana. E di quante resistenze ancora debba affrontare da noi chi vuole provare a fare un cinema diverso…

Sono le tre, il cielo splende, e oltre la finestra, due piani più in basso, duecentomila ragazzi prendono d’assalto il centro cittadino, riempiendosi gli occhi e le borse con le storie e i personaggi che amano. Siamo al terzo giorno del Lucca Comics e Gabriele Salvatores ha appena finito di presentare alcune clip del suo nuovo film, Il ragazzo invisibile, al pubblico che ha preso d’assalto la cittadina toscana. In un salottino silenzioso dentro il Teatro del Giglio, affacciati su una piazza che scoppia di vita, sentiamo il lontananza il brusio dei ragazzi che fino a poco prima erano in sala ad ascoltarlo. Lui sorride, ha una gentilezza premurosa che ti conquista ogni volta che lo incontri, ma che non gli impedisce affatto di infilare il dito nella piaga quand’è il caso.

Best Movie: Quanto è ancora difficile produrre film del genere in Italia?

Gabriele Salvatores: «Molto. Io ho avuto la fortuna di incontrare Nicola Giuliano e Francesco Cima di Indigo Film (produttori tra l’altro di tutti i film di Sorrentino, ndr), l’idea da cui è nato Il ragazzo invisibile è loro».

BM: Secondo te perché è così difficile?

GS: «Beh, c’è grossa diffidenza grossa già in partenza. Ti dicono: “Ma cosa vuoi fare un film di supereroi in Italia…”, intendendo che noi non dovremmo essere in grado. Invece tecnicamente, se parliamo di scenografi o direttori della fotografia, ma anche di creatori di effetti speciali, non siamo affatto inferiori agli americani. Poi c’è il fatto che il nostro cinema ha due genitori ingombranti, neorealismo e commedia all’italiana, che a partire dagli anni ‘60 hanno avuto grande successo condizionando tutto quanto si è fatto in seguito. Questo va benissimo, i genitori vanno rispettati, ma se si vuole maturare vanno anche, metaforicamente, uccisi, come dicevano i Greci».

BM: D’altra parte i festival tradizionali si stanno via via svuotando d’attenzioni, mentre eventi come il Lucca Comics & Games crescono vertiginosamente ogni anno.

GS: «Di sicuro l’immaginario collettivo si è molto spostato, c’è tantissimo pubblico che è cresciuto con i supereroi. Prima o poi, quindi, bisogna provare a battere quella strada. Certo, c’è bisogno di produttori veri, che non abbiano paura, capaci di appassionarsi a un progetto e accompagnarlo in tutte le fasi».

BM: Una figura che in Italia non è molto diffusa.

GS: «Mi hanno raccontato che poco tempo fa c’è stato un pranzo di vecchi produttori e uno si è alzato per un brindisi, dicendo: “Sentite, abbiamo fatto un cinema veramente di merda, ma abbiamo fatto pure tanti soldi”. Ecco, se il cinema lo vedi così, nasce morto…»

BM: Fausto Brizzi, sul blog che tiene per Best Movie, ha lanciato una provocazione: in Italia non solo si fanno sempre le stesse cose, ma non si è nemmeno capaci di promuoverle a dovere, iniziando molto prima che il film esca nelle sale.

GS: «In questo la Indigo è un esempio perfetto di controtendenza. I primi di teaser di Il ragazzo invisibile sono di nove mesi fa. E tutto il progetto crossmediale, compreso il romanzo, i fumetti e il concorso musicale, non sarebbe stato possibile se non ci si fosse mossi per tempo. Chi l’ha detto che la cultura non può generare guadagno? Però devi affrontarla in modo più industriale, meno artigianale».

BM: Il ragazzo invisibile rappresenta un’alternativa al gran numero di commedie che arrivano in sala, e che tra l’altro ultimamente stanno anche incassando meno. Senti una certa pressione?

GS: «Devo dirti questo: io sono stato molto fortunato quando ho vinto l’Oscar per Mediterraneo. Ero a inizio carriera, al terzo film, e mi scontravo con opere bellissime, come Lanterne Rosse di Zhang Yimou, che probabilmente meritavano anche di più. Da allora ho cercato di restituire qualcosa, usando il potere che mi è derivato da quel successo facendo scelte diverse, in qualche modo nuove, e dedicandomi soprattutto al cinema di genere. Quindi so che questa operazione è rischiosa, ma è un rischio che sono felice di correre».

BM: Il film inizia in modo più tradizionale e poi assume via via i connotati del cinecomic.

GS: «Diciamo che, anche da un punto di vista musicale, si “americanizza” via via sempre di più. Prima ci sono brani più intimisti, poi cominciamo a sentire musica orchestrale, il tappeto sonoro si gonfia mentre il protagonista comincia a prendere coscienza dei suoi poteri. In pratica il ragazzo “entra” in un film di supereroi, e poi dovrà decidere se uscirne….»

BM: Ci sono molti effetti speciali. Quanto è durata la postproduzione?

GS: «Moltissimo, oltre un anno. Se hai tante persone che lavorano con tanti computer contieni i tempi, basta che guardi quanto sono lunghi i titoli di coda di Guardiani della galassia. Ma se hai poche persone e pochi computer ci vuole un bel po’».

BM: Con che budget avete lavorato?

GS: «Poco meno di 8 milioni».

BM: Come mai non avete girato in inglese vista la natura internazionale del film?

GS: «Ti racconto un aneddoto legato a Nirvana. Harvey Weinstein, il boss della Miramax che aveva già distribuito Mediterraneo negli Stati Uniti e voleva distribuire anche questo, fece delle proiezioni a NY e LA, e ottenne ottimi riscontri, tanto che investì molti soldi per ridoppiarlo in inglese e sistemare alcuni effetti speciali. Quando però lo fece rivedere in inglese, il gradimento si abbassò molto. Perché il pubblico anglosassone dà per scontato che un prodotto percepito come “americano”, e in questo la lingua è decisiva, debba sottostare ad alcuni standard produttivi e spettacolari che ovviamente per noi sono irraggiungibili».

BM: In che modo il grande successo delle serie tv, specie quelle americane, sta influenzando il cinema?

GS: «La televisione e Internet sono in grado di raccontare la realtà politica e sociale molto meglio dei film, molto più puntualmente. E quindi probabilmente il cinema dovrebbe recuperare un ruolo diverso, occuparsi di raccontare l’altro lato della realtà, quello non visibile, in qualche modo “oscuro”. Poi le serie tv hanno un vantaggio…»

BM: E sarebbe?

GS: «Come mi faceva notare Ammaniti qualche tempo fa, visto che tutte le storie sono state raccontate e che un film di genere, avendo circa 100 minuti a disposizione, segue percorsi obbligati, rischi di essere ripetitivo. Devi avere un’idea fortissima, o trovare una messa in scena particolare. Invece le serie ti permettono di avere delle back stories, delle “deviazioni”, che servono ad approfondire e magari in un film sarebbero vissute come incongrue. Il racconto si allarga. Poi, oltre al minutaggio, va detto che canali come la HBO rischiano su temi belli forti… Qui appena proponi, che ne so, un bambino malato, ti guardano strano. Poi però Braccialetti rossi è un trionfo».

BM: Quali sono le tue serie preferite?

GS: «Breaking Bad, True Detective, House of Cards… Una delle prime che mi aveva colpito era stata Six Feet Under. In generale mi piacciono quelle che provano a esplorare delle tematiche inedite. Come ho detto: non bisogna avere paura».

(foto: Kikapress)

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