Trent’anni dopo gli eventi narrati in Ghostbusters II (1989), Callie Spengler (Carrie Coon) si trasferisce con i due figli Trevor (Finn Wolfhard) e Phoebe (Mckenna Grace), nipoti di Egon (Harold Ramis, attore e autore della saga scomparso nel 2014), in campagna, presso la cittadina di Summerville, dove nonno Egon ha lasciato loro la proprietà di una fattoria semidiroccata.
Qui i due ragazzi scoprono man mano il legame che li unisce al nonno e quindi a tutta la squadra di Acchiappafantasmi di cui il dr. Spengler faceva parte, formata ovviamente anche dai dottori Venkman (Bill Murray), Stantz (Dan Aykroyd) e Zeddermore (Ernie Hudson). Contestualmente, sembra che ci sia una certa agitazione sotto terra, proprio al di sotto di Summerville, che ogni giorno sperimenta scosse di assestamento e tremolii nonostante non sia costruita sopra una faglia sismica. Aiutati anche da un loro insegnante di scuola, il professor Grooberson (Paul Rudd) e da un nuovo buffo ragazzino di nome Podcast (Logan Kim), Trevor e Phoebe iniziano a indagare su questo mistero che, forse, non è del tutto scollegato dalla professione del loro celebre nonno.
Ghostbusters: Legacy, il film che ha aperto la diciannovesima edizione di Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, in uscita nelle sale italiane il 18 novembre, è incaricato di riportare in auge una saga dal fandom granitico, già messo a dura prova dal bistrattato reboot femminile del 2016. L’anima del progetto è ben riassunta sia dal titolo italiano che da quello americano, diversi ma complementari: da un lato “Legacy”, ossia “eredità”, e dall’altro “Afterlife”, ovvero la vita dopo la morte, l’aldilà.
A farsi carico di un’eredità decisamente ingombrante c’è Jason Reitman, che raccoglie il testimone dal padre Ivan, regista dei primi due film, dopo una carriera di pregio nel cinema indipendente americano d’alto profilo. Lo fa in quello che è chiaramente un film devoto e amorevole verso il passato dei Ghostbusters, per certi versi simile alle atmosfere intime e provinciali di alcuni suoi lungometraggi del passato, ma eccessivamente gravato dalla responsabilità di rievocare fantasmi familiari tanto per lui, che da bambino si aggirava sul set dello storico film del 1984, quanto per gli appassionati fedeli e di stretta osservanza del filone.
Le ombre e gli spettri sono sicuramente tantissimi ma in compenso la magia, purtroppo, è davvero poca e ridotta al lumicino. La sceneggiatura di Reitman e del sodale Gil Kenan è infatti particolarmente bozzettistica, esangue e priva di mordente nel tratteggiare tanto l’arco narrativo dei personaggi quanto l’incedere degli eventi, e lo sviluppo è come congelato dall’eccessivo timore di toccare i tasti sbagliati e scontentare chicchessia.
Il risultato, con queste premesse, non può che essere un blockbuster adolescenziale piatto e anodino, che dei film originali espone solo i vessilli a uso e consumo del fan service più telefonato possibile, e per il resto si limita a un diligente calco tanto delle atmosfere para-spielberghiane quanto, soprattutto, degli umori teen di Stranger Things. Come se la nostalgia anni ’80 degli autori dell’amato e popolarissimo serial, Netflix i Duffer Brothers, che a film come Ghostbusters e a quella stagione deve evidentemente moltissimo, tornasse a vivere altrove sotto forma di replicante, già rimasticata e digerita a dovere da un immaginario all’insegna delle rime interne più sterili e stucchevoli immaginabili tra il cinema di ieri e la serialità di oggi, tanto che nei dialoghi si scomoda anche The Walking Dead un po’ a caso.
La cittadina rurale dell’Oklhahoma in cui si svolge la vicenda è praticamente identica alla Hawkins, nell’Indiana, di Stranger Things. Anche qui c’è una madre single come la Joyce di Winona Ryder e perfino uno dei protagonisti, Finn Wolfhard, è condiviso con la serie. Senza contare che anche il resto del casting degli attori più giovani, a cominciare dalla Phoebe della pur brava Mckenna Grace, vorrebbe replicare volti già familiari e “alla Stranger Things” per suggerire negli spettatori più giovani, che verosimilmente non hanno alcuna memoria automobilistica della Ecto-1, una continuità ideale, mentre l’attenzione ai dettagli reali, come le coreografie dei movimenti dei mini Marshmallow Man, latita a dir poco ed è sotto il livello di guardia.
Un vero peccato che un’operazione carica di belle speranze come Ghostbusters: Legacy ricorra ad alchimie produttive così conservative, banali e di risulta, limitandosi a inanellare antiche insegne sulle fiancate delle auto e zaini protonici e svecchiando il franchise solo a colpi di spot televisivi dei Ghostbusters consumati su YouTube. C’è anche l’aggiunta del professore nerd sdrucito e irresistibile, ben interpretato dal sempre empatico Paul Rudd, fissato con horror eighties come La bambola assassina e Cujo («Immaginate Beethoven che si ammala di rabbia e comincia a sbranare i bambini») tanto da proporne la visione in classe, ma sono strizzate d’occhio che non smuovono alcun sorriso né accendono alcun lampo citazionista illuminante.
Non fanno meglio l’utilizzo vintage dell’animatronic e la presenza obbligata, a mo’ di cartellino da timbrare, degli attori originali, che quando si concretizza sa solo di impolverato sigillo, di seduta spiritica brontolante, stanca e muffa.
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