Roma, primi anni Ottanta. Giulio (Pierfrancesco Favino), Paolo (Kim Rossi Stuart) e Riccardo (Claudio Santamaria) hanno sedici anni e tutta la vita davanti. Giulio e Paolo sono già amici, Riccardo lo diventa dopo una turbolenta manifestazione studentesca, guadagnandosi il soprannome di Sopravvissuto. Al loro trio si unisce Gemma (Micaela Ramazzotti), la ragazza di cui Paolo è perdutamente innamorato. In realtà tutti e quattro dovranno sopravvivere a parecchi eventi, sia personali che storici: fra i secondi ci sono la caduta del muro di Berlino, Mani Pulite, la “discesa in campo” di Berlusconi e l’attentato alle Torri Gemelle, per citarne solo alcuni. E dovranno imparare che ciò che conta veramente sono “le cose che ci fanno stare bene” e che certi amori – così come certe amicizie – “fanno giri immensi e poi ritornano”.
Gli anni più belli, il nuovo film di Gabriele Muccino a due anni di distanza dal successo di A casa tutti bene, che segnava il suo ritorno in Italia dopo le alterne fortune americane, è prima di tutto un aggiornamento C’eravamo tanto amati, rimodellato secondo le esigenze espressive del regista de L’ultimo bacio e La ricerca della felicità. Al suo interno c’è anche tanto altro, ma la pietra di paragone è a dir poco ingombrante e non è affatto difficile intravedere, nelle peregrinazioni lungo quarant’anni di storia di Giulio, Paolo, Riccardo e Gemma, il lascito del capolavoro di Ettore Scola e la sua lezione ancora oggi abbagliante.
A Muccino, che con Gli anni più belli realizza probabilmente il suo melodramma più ispirato, va riconosciuto il merito di essere riuscito a cogliere l’anima del lungometraggio del 1974 con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefania Sandrelli e Stefano Satta Flores di averne saputo ricalcare e rispolverare le coordinate drammaturgiche e psicologiche, riportandole ai sogni infranti della generazione di quarantenni e cinquantenni odierni (al posto della canzone partigiana E io ero Sandokan, non a caso, c’è Via del campo di De André). Coloro che hanno dovuto fare i conti, in tempi non sospetti, con padri decisamente castranti: quei boomer di cui oggi molto si parla e che hanno segnato la Storia del nostro paese cannibalizzando benessere e utopie, ai loro posteri fatalmente negati. Per impotenza diffusa, erosione di risorse, disillusione e crollo di ogni idealismo e senso di appartenenza politica e sociale.
Ne Gli anni più belli, che prende il titolo dall’omonimo brano inedito di Claudio Baglioni in colonna sonora, le vicende di due dei protagonisti, Giulio (figlio di un meccanico divenuto avvocato) e Paolo (professore di italiano, latino e greco al liceo Visconti di Roma), finiscono per ruotare intorno alla stessa donna, Gemma, proprio come accadeva nel film di Scola col triangolo sentimentale tra il Gianni di Gassman, l’Antonio di Manfredi e la Luciana della Sandrelli. Giulio si lascia andare anche a un legame di convenienza economica (con Margherita, interpretata da Nicoletta Romanoff) proprio come faceva il Gianni Perego di Gassman con la Elide Catenacci di Giovanna Ralli e quello di Santamaria è un critico cinematografico fallito alla stregua dell’indimenticabile Nicola Palumbo di Satta Flores. Il suo Riccardo Morozzi, dapprima protetto dal capo critico de Il Messaggero, finirà infatti a coltivare pomodori e zucchine dopo varie vicissitudini, che lo portano a tentare la carriera politica con un movimento simile ai 5 Stelle e a sperimentare le ansie del freelance ante litteram («Ho venduto un’intervista a Carlo Verdone a Primissima!» – «E quando ti danno? Settantamila lire?», le risponde la moglie interpretata da Emma Marrone, ormai sul piede di guerra).
Tale turbinio di situazioni ed emozioni si snoda sullo schermo attraverso guizzi molto vitali, carichi di una passione scomposta per il grande romanzo popolare che nel cinema di Muccino, al netto di tutti gli eccessi strillati connaturati al suo stile, non aveva mai trovato una quadratura così efficace. Anche il costante parlare in camera del prologo anni ’80 con i protagonisti ragazzini (incredibile la prova della giovane Alma Noce nei panni della versione young della Ramazzotti) è legittimato dalla confezione estetica, da un uso sgargiante e sregolato del kitsch che fa somigliare quella prima porzione di film a ciò che forse sarebbe stato Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino se l’avesse diretto proprio Muccino, come inizialmente era previsto.
Via via che la narrazione de Gli anni più belli si dispiega in tutta la sua energica e tracimante generosità, a emergere non è solo la malinconia del tempo che passa ma anche la travolgente e struggente contraddittorietà del prendere a morsi la vita nel bene e nel male, da sempre uno dei contrassegni più forti del cinema di Muccino, a prescindere dagli esiti. Rispetto al pessimismo di C’eravamo tanto amati, autunnale e nichilista come si conveniva ai grandi maestri, c’è forse un anelito di speranza (obbligata) in più: il mantra «Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi» diventa qui un invito a non lasciare che il mondo ci definisca, ma a definirlo noi stessi, oltre a tradursi in un toccante monito ai giovani d’oggi a non scendere mai a compromessi. A preservare per se stessi, nonostante tutto e perfino con un pizzico di irrealismo, la sana e necessaria utopia di risalire la corrente di quel coacervo di nevrosi, ipocrisie e immaturità che i loro genitori gli hanno lasciato in eredità limitandosi a recitare la parte della famiglia perfetta. Di fatto non sapendo e non potendo, da “ladri di sfortuna” quali sono (per citare Baglioni), donargli altro.
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