Le origini storiche di Godzilla, incarnazione delle ansie postatomiche del popolo giapponese, sono tanto precise e tanto note da averlo trasformato nei decenni in uno scenario del panorama postmoderno, via via svuotato delle proprie cause. Godzilla, cioè, vale un tornado, un’eruzione o un terremoto. Se ne era reso conto (non per primo, certo: si pensi alla Guerra dei Mondi nella versione di Spielberg) Gareth Edwards ai tempi del suo Monsters, quando aveva ridotto la presenza delle creature giganti a un braccio di un ecosistema ostile, lasciandole sullo sfondo, o pareggiandole a un inconveniente senza nome nel viaggio dei due protagonisti.
Era lecito attendersi un’approccio analogo con Godzilla. E la prima parte del film sembra confermarlo: se Pacific Rim è un monster movie (“kaiju eiga” nella tradizione giapponese) costruito come un fantasy, Godzilla ambisce ad essere un thriller e un melodramma. Uno scienziato nucleare (interpretato con la consueta foga drammatica da Bryan Cranston) scopre uno schema ricorrente nelle onde elettromagnetiche che precedono e seguono un terremoto in Giappone e attribuisce il disastro a un fenomeno sconosciuto e non geologico. Ovviamente nessuno gli crede. I rimandi alla tragedia di Fukushima sono espliciti e la scrittura dei personaggi è convenzionale ma seria. La regia ammicca a Spielberg, con un incipit (e non solo) che sembra uscito dritto da Jurassic Park: lo sguardo è quello di un bambino filtrato dalla consapevolezza di un adulto, la morte è reale e formativa, ma non minacciosa, i personaggi di contorno sono caratteri classici ma buffi.
Il resto della recensione richiederebbe un gran numero di spoiler per non diventare un’acrobazia sintattica. Diciamo che qui avviene una cesura nel racconto, cui corrisponde la prima comparsa di un mostro. Il film divide nel seguito le proprie attenzioni tra il destino delle creature e quello dei personaggi, mettendo in chiaro molto presto – e qui sta il problema – che le prime non saranno legate alle seconde. Succede così che per la metà del tempo assistiamo a ridicole elucubrazioni fanta-zoologiche messe in bocca a uno spaesato Ken Watanabe (che stupefatto quanto noi di quel che gli tocca dire, riesce solo a spalancare gli occhi ogni volta che è in scena), mentre l’esercito americano porta avanti una campagna militare senza senso, imperniata attorno a una bomba nucleare analogica. Molte linee di dialogo sono improponibili anche per gli standard del genere, ma soprattutto l’interesse per i personaggi e la loro storia si spegne e non si riaccende più. Alcuni vengono dimenticati da qualche parte nel film e mai recuperati.
A questo punto la differenza in positivo la fa di nuovo l’occhio di Edwards, quando sceglie per la battaglia finale un look cupo/fuligginoso/crepuscolare che gli consente almeno una scena magistrale – quella del lancio dei paracadutisti – e un pathos sempre alto negli scontri tra le creature. Come ci si aspetta, il livello di realismo applicabile al genere ha raggiunto vette di grande suggestività e lo spettacolo su schermo IMAX risulterà impressionante.
Nota di merito finale per i bellissimi titoli di testa e per la apocalittica colonna sonora di Alexandre Desplat.
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