Gerard Butler, con la sua casa di produzione G-BASE, per Greenland è tornato a collaborare col regista Ric Roman Waugh per raccontarci una storia di sopravvivenza collettiva, mentre il mondo va a pezzi a causa di una cometa in rotta di collisione con la Terra. Non un film catastrofico come tanti altri, ma un viaggio on the road verso la salvezza che all’eroe senza macchia e senza paura preferisce l’uomo qualunque, con tutti i suoi pregi e difetti. Ne abbiamo parlato con l’attore di origini scozzesi che, a cinquant’anni, esige sempre di più dai film d’azione.
Anche se non parla di una pandemia, Greenland arriva con un tempismo perfetto, ricordandoci che l’uomo, e la sua presenza sulla Terra, non vanno dati per scontati. Qual è la tua posizione al riguardo?
«Prima dell’attuale crisi pandemica c’era già stata una mobilitazione di massa nella coscienza collettiva dell’uomo. Se avessimo fatto questo film quarant’anni fa sarebbe stato visto solo come un film catastrofico e quindi con la leggerezza di chi può stare tranquillo perché tanto una cosa del genere non potrebbe mai verificarsi. Da un ventennio a questa parte, però, la situazione è cambiata e l’umanità ha iniziato a vivere sulla propria pelle la consapevolezza che non siamo il centro di tutto. In fondo la cometa non è altro che la metafora di tutte le sfide che dobbiamo affrontare su scala più o meno grande».
Oltre a essere un film catastrofico, Greenland è anche, e soprattutto, un film sulla famiglia.
«È vero, e nello specifico una famiglia come tante perché di fronte all’ineluttabilità della cometa non ci sono eroi. Viviamo le loro paure, le loro preoccupazioni, le speranze e le reazioni, e come tutto ciò si manifesta mano a mano che la catastrofe si avvicina. In un certo senso riflette la situazione odierna, come ciascuno di noi, nel suo piccolo, vive e si comporta nel mezzo di una tragedia globale che assolve al ruolo di grande equalizzatore. Eppure è proprio in questi momenti che finiamo per sentirci più uniti, perché siamo tutti nella stessa barca».
Dopo film come Armageddon e Deep Impact si potrebbe dire che di film del genere ne abbiamo visti tantissimi, eppure proprio questo aspetto della famiglia rende Greenland diverso. La sceneggiatura di Chris Sparling lavorava in questa direzione fin dall’inizio?
«Sì, ed è proprio questo aspetto che ho trovato inedito e interessante, il fatto che gli spettatori possano identificarsi nel marito, nella moglie, nel bambino. Sei con loro in questo viaggio. Con Ric Roman Waugh, non abbiamo fatto altro che accentuare il loro punto di vista in modo da catturare il pubblico ancora di più. Poiché la catastrofe è inevitabile, non c’è verso di aggirarla, facendo – che so – esplodere la cometa. Rispecchia in modo realistico come ciascuno di noi potrebbe reagire in situazioni al limite come quella in cui ci troviamo attualmente. Che si tratti di una cometa o di una pandemia, come veniamo cambiati e ridefiniti da queste calamità?».
Il tuo personaggio è un ingegnere edile, tra i fortunati a essere scelti dal governo per contribuire alla ricostruzione del pianeta dopo il disastro. È più difficile “aggiustare” il mondo o un matrimonio, visto che nel film sei anche alle prese con una profonda crisi coniugale?
«Si equivalgono (ride). Più la cometa avanza, più la coppia scopre ciò che conta del loro matrimonio. È un altro aspetto interessante del film, il fatto di mettere da parte tutti gli artifici e guardare alla realtà. Di cosa parla in fondo? Dei sentimenti, della famiglia, delle nostre responsabilità e della nostra capacità di proteggere chi ci sta intorno».
In questo periodo si sente tanto parlare di “immunità di gregge”. C’è anche nel tuo film, ma anziché sul sistema immunitario si basa sulla meritocrazia. Per alcuni è una selezione giusta, ma inevitabilmente non lo è per chi non è ritenuto indispensabile. Come la mettiamo?
«Bella domanda. Ne parlavo poco fa anche col mio agente. Se la cometa è il grande equalizzatore che annienterà il 99,9% della popolazione, ci troviamo tutti nella stessa situazione, un po’ come sta avvenendo con questa pandemia, con la differenza che ciascun Paese è caratterizzato da situazioni economiche, sociali e sanitarie diverse. L’uomo, proprio come ogni specie animale, vive secondo l’istinto di sopravvivenza. Perciò, di fronte a una minaccia globale, tutto diventa lecito, persino abbandonare al suo destino l’amico o il vicino di casa. È orribile, e in linea di principio non sono d’accordo, ma arriverei a comprendere una decisione del genere, se questo servisse a evitare che un domani un gruppo di persone incapaci si ritrovasse a guardarsi in faccia senza la benché minima idea di cosa fare per andare avanti. E con questo (ride) abbiamo appena posto le basi per un nuovo film!»
È un ruolo interessante il tuo, perché è una via di mezzo tra quelli più adrenalinici dei tanti film action di cui sei protagonista e quelli più romantici dei family drama in cui ti abbiamo visto recitare in passato. Cosa ti ha attirato di questo personaggio rispetto ai precedenti?
«È che sento di essere cresciuto e di conseguenza ho voglia di confrontarmi con un pubblico più maturo. Mi piace sempre recitare nei film d’azione, ma se posso mostrarmi più simile a un Tom Hanks che al Gerard Butler di una volta, preferisco. (ride) È più elettrizzante interpretare un uomo normale con tutte le sue imperfezioni e contraddizioni che non un super macho. Offe più sfaccettature. Diversamente, quando fai i film di pura azione alla fine ti rendi conto che certe situazioni sono così esagerate da risultare perfino ridicole».
Prima di salutarti, mi dici com’è nato il tuo sodalizio con Ric Roman Waugh con cui sei già al lavoro su un terzo film?
«Ci siamo conosciuti 12 anni fa, ai tempi di Giustizia privata che è stato il primo film che ho prodotto. È stato strano passare dal fare solo l’attore che partecipa ai casting a essere tu in prima persona a scegliere gli attori che lavoreranno con te. Ric era uno di questi e anche se al tempo non aveva ancora abbastanza esperienza, è stato quello con cui ho avuto più feeling. Siamo rimasti in contatto sperando di poter collaborare un giorno, cosa che è successa con il terzo film di Attacco al potere, quando c’è stata la necessità di aggiungere al franchise qualcosa di nuovo per renderlo più organico. Il suo apporto su quel film in termini di azione equivale a quanto fatto per Greenland con il genere catastrofico. È sempre una gioia lavorare con lui. Siamo amici e anche se ciascuno di noi ha le proprie idee, abbiamo un grande rispetto l’uno dell’altro. Ci frequentiamo spesso e ci sentiamo sempre, anche per delle cazzate. In lui ho trovato il complice che stavo cercando».
Foto: © Anton, G-BASE, Riverstone Pictures
© RIPRODUZIONE RISERVATA