Quando entra in una stanza Guillermo Del Toro la riempie. Non solo, o non tanto, per la sua stazza – è alto 1 e 83 per più di 100 chili – quanto per l’energia incontenibile che lo attraversa, per l’entusiasmo e la passione con cui parla dei suoi progetti, spesso sfortunati o mai approdati in porto.
Polo nera, ampi pantaloni dello stesso colore, scarpe comode, gesticola vivacemente con le sue ditone costellate di pesanti anelli d’argento, mentre ci racconta il lungo viaggio che lo ha portato a modellare La forma dell’acqua, il film con cui – ancora non lo sapeva mentre ce lo raccontava – ha vinto il Leone d’Oro all’ultimo Festival di Venezia e poi il Golden Globe, fino a diventare uno dei favoriti ai prossimi Oscar. Favola noir, con pennellate horror, che racconta la poetica storia d’amore tra una ragazza muta (Sally Hawkins) e una misteriosa creatura.
«Ci ho messo sei anni per riuscire a portare questa storia d’amore tra un mostro e una donna sul grande schermo. Nella sua fase primigenia, per delinearne gli aspetti visivi, mi sono fatto ispirare dalla colonna sonora composta da Jon Brion per Ubriaco d’amore, diretto da Paul Thomas Anderson. Ovviamente la fonte di ispirazione più immediata è il film Il mostro della laguna nera, ma è stata quella musica a ispirarmi la love story tra un mostro marino e una donna, oltre a un B-movie giapponese su un pesce nero. E ci sono voluti tre anni per dare vita all’anfibio antropomorfo; credo la più lunga gestazione per una creatura cinematografica».
Come mai hai deciso di dare vita a una storia d’amore così eccentrica?
«Il cinema è pieno di versioni di La Bella e la Bestia puritane e pudiche, dove il mostro diventa un principe, ma in cui manca la parte erotica. Oppure, ci sono le variazioni kinky e perverse. Io invece volevo una storia d’amore che includesse la sensualità. Avevo bisogno anche che Elisa non fosse una principessa, ma un personaggio unico, che impiegasse tre minuti per far bollire le uova, tre minuti per masturbarsi, tre minuti per lucidare le scarpe… Un personaggio puro e innocente, ma allo stesso tempo con istinti sessuali vivi».
Perché nel tuo cinema la figura del mostro è sempre presente?
«L’idea più pericolosa al mondo è la perfezione. Tutti i fascismi e i nazionalismi manipolativi invocano la perfezione. L’imperfezione, invece, è raffigurata dai mostri. L’atto d’amore supremo che si può fare è riconoscersi l’un l’altro: se io ti vedo, allora tu esisti e viceversa. E, soprattutto, ti vedo così come sei e non come vorrei che tu fossi. Esattamente come i mostri che si presentano per quello che sono; per loro è impossibile mentire. King Kong è un gorilla ed è puro. Come Elisa, che è un’emarginata ed è innocente. Il mostro è l’emblema della tolleranza».
Questo film è una dichiarazione d’intenti contro la politica intollerante e razzista di Trump?
«Io sono un messicano e sa Dio quanta fatica facciamo noi messicani con l’ufficio immigrazione. Noi messicani siamo passati attraverso una guerra civile fratricida, che ha significato la distruzione delle famiglie; abbiamo vissuto e viviamo ogni giorno l’intolleranza. Non poteva esserci un momento migliore per questo film. Il cinismo, l’intolleranza, l’odio sono sinonimi di intelligenza, invece se parli d’amore sembri stupido. Le emozioni sono punk. L’amore è più punk del punk». […]
L’intervista completa è pubblicata su Best Movie di febbraio, in edicola dal
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