Quando qualche mese fa hanno cominciato a circolare le prime foto di Pierfrancesco Favino in Hammamet, il film di Gianni Amelio dedicato agli ultimi sei mesi di vita di Craxi nel suo esilio tunisino, la sorpresa è stata grande: più che di una semplice somiglianza si trattava di vero e proprio mimetismo, dal corpo appesantito alla forma del volto – modellata dal trucco –, fino all’inconfondibile profilo degli occhiali. Una scelta che l’arrivo del trailer ha ulteriormente ribadito, evidenziando il lavoro sulla voce, e che dà continuità alla sua carriera di attore eclettico e restìo alle classificazioni, dopo la straordinaria incarnazione di Tommaso Buscetta nel Traditore di Marco Bellocchio. Incontriamo Favino a inizio dicembre a Sorrento, in una pausa delle Giornate Professionali di Cinema, dove è venuto nella doppia veste di interprete e produttore per presentare Padre Nostro di Claudio Noce. Ci sediamo a un tavolo decentrato del ristorante di un grande albergo, subito dopo pranzo, dove invece di un caffè ordina una tisana: «Devo prepararmi al prossimo ruolo, sarò un salutista» mi dice, ma non so se stia scherzando.
Comincio chiedendoti la cosa più banale, cioè come nasce questa somiglianza estrema con Craxi che ha lasciato tutti sbalorditi. È interessante perché ci sono due scuole di pensiero in questo senso, da una parte gli attori che vogliono scomparire nel personaggio e dall’altra quelli sempre riconoscibili. Ricordo che quando comparve la prima foto di Servillo in Loro tra gli addetti ai lavori circolava questa battuta: “C’è la prima immagine di Servillo che fa Servillo che fa Berlusconi…”. Al contrario con le prime foto di Hammamet la gente ti ha confuso proprio con Craxi.
«Ovviamente la scelta della somiglianza è partita da Gianni Amelio. Però nel momento in cui si è iniziato a ipotizzare questa cosa io stavo ancora lavorando al Traditore e anche in quel film si era fatto utilizzo, seppur più leggero, di trucchi prostetici per rendermi più simile al personaggio. Allora ho chiesto a Lorenzo Tamburini, Andrea Leanza e Federica Castelli, che curavano il trucco di Buscetta, se se la sentissero di affrontare anche la sfida di Craxi. Diciamo che il lavoro su questo aspetto è durato più o meno un anno intero, anche a lavorazione già avviata, per limare i dettagli».
È come indossare una maschera.
«Però credo che, nonostante la maschera o il trucco più o meno raffinato, in realtà un attore… e direi fortunatamente… sia comunque “condannato” a essere se stesso. Per cui la maschera può essere il punto di contatto tra il personaggio e la memoria delle persone, ovvero tra l’uomo realmente esistito e l’attore che lo interpreta. Alla fine credo, tutto sommato, che sia stata comunque un’invenzione».
In che senso?
«Nel senso che ovviamente io in quel contesto non sono Craxi e non sono nemmeno Favino, me stesso, come sono nella vita di tutti i giorni. E credo anche che questo sia proprio uno degli aspetti più interessanti, nel senso che lo stupore del vero dura il tempo che ci metti ad abituarti, quei cinque minuti necessari, come spettatore, per dire: “Ok, questo è Craxi”. È lo stesso concetto che vale quando entra in scena Amleto a teatro… Vedi l’attore, lo spettacolo inizia e lo spettatore dà per scontato che quello sia effettivamente Amleto. Dopo il primo impatto, però, non è certo solo su questo aspetto che può reggersi un’opera. Ti dico onestamente che la fatica più grande, anzi le fatiche più grandi, è stata proprio misurarmi con la dimensione dell’uomo, del leader politico, con il suo mondo interiore. Certo è che, a un certo punto, nel percorso di trucco che durava in media cinque ore al giorno ed era fatto dell’applicazione di undici accessori prostetici, era come se iniziasse un rituale di trasformazione».
Quasi come un momento di meditazione…
«Beh, innanzitutto l’applicazione di quel tipo di trucco necessita che tu sia molto vigile e collaborativo, tenendo delle posizioni, quindi in realtà c’erano pochissimi momenti in cui potevo rilassarmi. E ne approfittavo, eh. Però vedi, ad esempio i Giapponesi, riferendosi al teatro, parlano di questo “ponte”… E quel momento per me rappresentava proprio quello, era una specie di passaggio».
A proposito di mimetismo, c’è anche la voce in questo caso… Quando abbiamo visto il trailer, tutti quanti siamo balzati dalla poltrona.
«Beh, sai, dal momento in cui ti si chiede questo tipo di performance, ovviamente il tentativo è quello di riprendere alcune cose, però anche di rendersi bene conto di quello che può essere cinematografico e quello che invece non lo è. Ad esempio non ho volutamente insistito su quelle che erano le sue celeberrime pause, se non forse in una occasione. Proprio perché in un film non avrebbe funzionato. Ripeto, sono strettamente legato all’idea che comunque il cinema o i film siano un’invenzione, quindi è legittimo tanto per me quanto per il regista scegliere l’aspetto che interessa di più raccontare».
Nel tuo caso qual era?
«È stata sorprendente la mia esperienza nei confronti dell’anzianità, della caducità del corpo, dell’idea della morte. Io questo film l’ho sempre percepito come se fosse una specie di Re Lear. Se noi non sapessimo chi è veramente quest’uomo, vedremmo solo un uomo molto potente che non ha più alcun potere e che non solo sconta questa perdita di potere pubblico ma anche la perdita del potere del corpo, la perdita della forza e l’abbandono della lotta contro la morte. Tutto raccontato alla luce di un bellissimo rapporto con la figlia, che trovo sia una radice molto emozionante del film. Essendo io stesso padre, e avendo visto mia moglie con suo padre, se pure il protagonista non si chiamasse Bettino Craxi, rimarrebbe la parte più intensa».
Ma Stefania e gli altri familiari sono stati in qualche modo coinvolti nella lavorazione?
«Non avremmo mai potuto fare questo film altrimenti… Cioè, l’avremmo potuto fare ma sarebbe stato irrispettoso. Sono stati coinvolti, soprattutto la moglie, e sono stati tutti molto rispettosi della distanza necessaria per poter affrontare un tema del genere».
Questo discorso sulla vecchiaia del corpo, la trasformazione, il rapporto con la figlia, mi fa venire in mente un altro di film di cui si sta parlando parecchio in questo periodo che è The Irishman… Però lì si affronta la trasformazione dell’interprete è in gran parte fatta in digitale e questo mi fa pensare a come sta un po’ cambiando il mestiere dell’attore…
«Io credo che in realtà non ci rendiamo conto che quello che stiamo guardando veramente mentre guardiamo un attore in un film sono gli occhi. E gli occhi sono l’unica cosa che non è possibile invecchiare o ringiovanire, anche se in The Irishman hanno messo delle lenti azzurre per De Niro che sono una convenzione del suo essere irlandese. Ma tu guardando quegli occhi ti ricordi gli occhi di De Niro, di quegli occhi che appartengono a tanti altri film. Quella cosa non sarà mai manipolabile, come non sarà mai replicabile il respiro. Nel senso che per quanto sia possibile mimeticamente adattare la propria voce a un personaggio, non solo è bene ma direi che è fatale che le persone possano riconoscerne la matrice. Se oggi uscisse al cinema un film su Craxi e le persone non sapessero che sono io a farlo, probabilmente sarebbero meno interessate a vederlo. La tecnologia non è ancora arrivata e non so se arriverà mai a sostituire l’anima e credo che ancora oggi noi andiamo al cinema per essere toccati proprio lì, per poter vedere della anime in azione».
È interessante che questo concetto valga primariamente per l’attore ma valga anche per i prop, cioè le creature, le armi, le scenografie. Ancora oggi gli effetti speciali artigianali hanno una capacità di emozionare superiore a quelli digitali.
«Certamente. È anche una questione di abitudine. Io lo vedo con le mie figlie, capita che dicano: “E vabbè, ma questo l’hanno fatto al computer”. È come se la cosa avesse meno valore perché non è “umana”, non è reale, e così perdesse parte della sua magia, del suo mistero. Ecco, quel mistero e quella magia secondo me non sono replicabili digitalmente».
Parliamo invece dell’aspetto più politico del film. Facendo un po’ di calcoli, quando è esplosa l’inchiesta Mani Pulite tu avevi poco più di 20 anni, poi durante l’esilio di Craxi eri intorno ai 30… Che ricordo hai di quell’epoca?
«Innanzitutto in quegli anni frequentavo una famiglia, quella della mia fidanzata dell’epoca, molto legata ad ambienti politici. E mi ricordo che io, venendo invece da una famiglia che era al di fuori da questi aspetti, rimanevo enormemente stupito nel vedere sedute allo stesso tavolo persone che in televisione sembravano detestarsi. Lì ho iniziato a capire e a cambiare. A vent’anni ero molto acceso politicamente, avevo questo desiderio di cambiamento, ma anche di appartenenza… Sentivo di far parte di una generazione che avrebbe potuto cambiare le cose, che si sarebbe potuta impegnare per cambiare il mondo. Anche perché i miei 20 anni hanno anche coinciso con la caduta del Muro di Berlino».
Che Italia era quella lì?
«Un’Italia che contava molto sulla scacchiera della politica internazionale e tutto sommato un’Italia in cui sembrava ci fosse un benessere generale e un futuro. Eravamo dei ragazzi consapevoli del fatto che una collocazione l’avremmo avuta. Studiando, impegnandoci, certo, ma questa idea non era mai stata messa in discussione. Oggi invece questa cosa non è assolutamente possibile e fa impressione pensarlo. E non è certo colpa di Craxi questo futuro che viviamo. Un’altra cosa che mi ha fatto impressione quando ho iniziato a lavorare al film è stato riascoltare i discorsi parlamentari dell’epoca. Ma non solo di Craxi, eh… Mi ha fatto veramente impressione ritrovarli così “antichi”. Mi sembrava di sentir parlare Mazzini, ma non perché parlassero in maniera forbita. Ma perché nel frattempo il vocabolario della nostra realtà si è impoverito tragicamente. E guarda che non sono un nostalgico e all’epoca certamente non ero un craxiano, perché ero più a sinistra. Però oggi rileggendo alcuni passi, ecco… credo di aver interpretato con troppa superficialità alcune cose dell’epoca. Detto questo, io non sono un politico di professione, non sono uno storico di professione, non sono nemmeno un giurista o un magistrato. Detesto tutti quelli che mettono bocca su cose più grandi di loro e questa è sicuramente una cosa più grande di me».
Nella tua famiglia invece che idee circolavano?
«Sarebbe ingiusto non dire quante persone a casa mia, incluso mio padre, abbiano subito il fascino di Craxi. Non ci rendiamo nemmeno più conto, secondo me, della statura della sua leadership, perché non c’è più stato nessuno di quella caratura. Parlo dal punto di vista della preparazione politica. Dal punto di vista giuridico e della magistratura è un’altra questione, è come se esistessero due Craxi. Anzi tre, perché ora per me se ne è aggiunto un terzo che è l’uomo, quello che mi è stato chiesto di investigare e sul quale forse ho trovato anche più piacere a condurre la mia ricerca».
Craxi sostanzialmente disse: “Questa è l’acqua, tutti siamo pesci, viviamo qui dentro. Ed è inutile che veniate a dirmi il contrario. Tutti eravamo pesci e tutti facevamo questo, era il sistema che funzionava così”. È stato l’unico in pratica che ha avuto il coraggio di schiantarsi contro il treno in corsa dell’indagine, confermando quanto accadeva…
«Il discorso che fede in Parlamento nel luglio del 1992, prima che in dicembre Amato diventasse Presidente del Consiglio… Beh, a posteriori si può dire che fosse una specie di tesi difensiva. Però effettivamente nessuno “alzò le mani” e non mi sembra che la corruzione sia terminata con Mani Pulite. Io ora non so se la soluzione, come diceva lui, dovesse essere politica o giuridica… Ma anche perché non so bene cosa voglia dire, denuncio la mia ignoranza in merito. E non sarebbero certo stati tre mesi di libri a darmi un’idea più chiara, completa o complessa o risolutiva di questa situazione. Credo però che sia una di quelle pagine della nostra storia che può essere investigata con più profondità».
Quello tra l’altro è un periodo della storia italiana che in questo momento è al centro di tanta fiction, penso anche alle serie Sky 1992, 1993 e 1994… In Hammamet è il 1999, quindi siamo un po’ più avanti con gli anni. Ma è come se i 20 e rotti anni che sono passati venissero ritenuti una distanza corretta per ripensare artisticamente a quello che è successo…
«Guarda, innanzitutto non credo che il centro del film sia questo. Il centro del film non è la vicenda politica italiana, ma più che altro le sue conseguenze: si chiama Hammamet, quindi è abbastanza evidente intuire attorno a cosa ruota. Credo che si faccia un errore di superficialità a pensare che quel momento lì sia stato voluto solo dalla politica italiana o dalla giustizia italiana: sono state tantissime le variabili che hanno portato a quella situazione e quasi nessuno le conosce. Credo anche che si sottovaluti il fatto che, come dicevo prima, nel 1989 è caduto il Muro e la realtà sarebbe comunque cambiata. Però spingo alcuni ad andare ad esempio a vedere ciò che Craxi pensava riguardo alla politica sull’immigrazione, dal Corno d’Africa, piuttosto che dai Paesi mediorientali. Fa abbastanza impressione vedere la sua lucidità. E anche la sua passione. Da quello che mi è stato possibile comprendere, c’era veramente in lui una tendenza a vivere talmente immerso in quel mondo, quello della politica, da perdere il contatto con la concretezza di alcuni aspetti. Ovviamente non sto dicendo che ciò che è avvenuto è successo per distrazione, però che possa essere accaduto per leggerezza, quello sì. Ma chi sia il vero colpevole di quella leggerezza questo non lo so. Potrebbe anche essere stato un lato del suo carattere».
© Andrea Miconi
Vorrei allargare con un paio di domande per esplorare questo momento della tua carriera… Hai lavorato in sequenza con due maestri assoluti del cinema italiano di una particolare generazione come Bellocchio e Amelio, e poi sei tornato a lavorare con Gabriele Muccino per Gli anni più belli (in uscita a febbraio, Ndr), all’interno di un cinema che ha identificato una certa sensibilità e una certa generazione di attori.
«Quello che cambia penso che dipenda dalla persona che hai di fronte. Con Marco e Gianni, per quanto ci siano 10 anni di distanza tra i due, ti confronti con un mondo in cui addirittura la preparazione scolastica si sente che era diversa. L’idea stessa dell’approfondimento è diversa. Inoltre, di entrambi mi ha molto colpito la curiosità e la capacità di saper cogliere i dettagli senza però avere la necessità di metterci il proprio ego. Molto spesso si associano a dei cognomi illustri certi aggettivi: “bellocchiano”, “mucciniano”… Ecco, Bellocchio non fa le cose perché il suo tocco sia riconoscibile. È il suo modo di vedere la realtà, la sua visione è quella, la sua sensibilità è quella. Questa è una cosa bellissima, rara, che mi auguro un giorno di raggiungere anche io. Perché è quello che fa la differenza. E la medesima cosa riguarda Gianni, per esempio nella capacità di inoltrarsi negli angoli, nelle pieghe dell’animo umano. Gianni ha una capacità eccezionale di saper raccontare le sfumature dei sentimenti. È una caratteristica molto bella, che mi accende molto. Gabriele invece per me è come un fratello. Cioè, siamo cresciuti insieme e continuiamo a crescere insieme, gli voglio un gran bene, siamo legati da un grande affetto. Tanto da essere una delle poche persone con cui riesco ad avere una sincerità senza filtri, che non tocca mai l’orgoglio di uno o dell’altro».
Mi pare in generale di percepire una grande gratitudine.
«Una cosa che sicuramente non voglio fare è pensare di stare su un piedistallo. Nel senso che io riesco a dare quanto i film danno. Non c’è interpretazione che tu possa ricordarti che non sia legata a un film della stessa levatura. Per cui sono stato molto fortunato nell’aver avuto l’opportunità di avere ruoli di questo calibro. Gli attori hanno bisogno dei ruoli, poi se riescono a valorizzarli sono bravi e se non ci riescono… mannaggia. Con Il traditore e Hammamet ad esempio mi sono capitati due ruoli bellissimi e rischiosissimi, però, ai quali mi sono avvicinato come un bambino in un negozio di giocattoli. Riguardo a Gli anni più belli, secondo me è un film più che generazionale, cioè non è un film che può piacere solo a chi ha visto L’ultimo bacio e poi è cresciuto con noi. Perché fondamentalmente ha come protagonista il tempo che passa. Ha anche una sensibilità meno malinconica di quanto non sia stato ultimamente il cinema di Gabriele. Se invece parliamo della generazione di attori di cui faccio orgogliosamente parte e che torna nei suoi film, credo che sia una generazione innanzitutto molto vitale, ognuno con le sue grandi differenze. È come se fossimo una classe di liceo che è vissuta insieme e poi a distanza, in cui trovi quello più scapestrato, quello più giudizioso, il più ingenuo, quello più rompipalle… È proprio così».
© Andrea Miconi
Non ti chiederò chi è chi, nel gruppo, ma ne ho la tentazione…
«No, però ti posso dire che quando vado a vedere i film di Stefano Accorsi, quando vado a vedere Claudio Santamaria, quando vado a vedere Marco Cocci o Giorgio Pasotti non riesco più a giudicare il loro lavoro, perché è come quando vai a vedere un parente, cioè sono felice di vederli ed è una sensazione che mi tengo per tutto il film. Poi certo uno può fare delle valutazioni, bello, bravo… Ma è molto raro che ci diciamo queste cose, non è il fulcro della nostra relazione. Questo mestiere ti da la possibilità di incontrare delle persone con cui riesci a costruire questo tipo di rapporto ed è molto raro».
È bello perché poi sia per gli spettatori, ma anche per i giornalisti, sono cose di cui ti rendi conto con alcuni anni di distanza. Come ad esempio quando c’è stata la generazione dei grandi attori negli anni Settanta, e poi è venuta fuori questa scuola qui, che istintivamente si associa ai film di Muccino perché sono stati quelli che hanno celebrato la vostra unione e poi vi hanno sparpagliato per l’industria…
«Si, però non solo noi… Ce ne sono tanti di attori emersi. Io penso veramente questa cosa, non voglio che suoni ingenerosa. Certo se io faccio questo mestiere in un certo modo lo devo anche alla generazione di cui hai parlato prima. Però penso anche che un pochino di polvere ce la dovremmo scrollare di dosso. Credo che oggi ci sia più scelta di quanta non ce ne fosse all’epoca. Cioè credo che ci siano più di tre, quattro, cinque attori che possono interpretare un certo ruolo. La mia generazione, ma anche quella dopo, sta tirando fuori dei bei talenti, ci sono davvero tanti attori validi, dopodiché non voglio mettere bocca su logiche di altra natura».
Sono gli autori che mancano! Un po’ come dicevi tu prima, ci vogliono i film per i personaggi: quest’anno tutti si ricorderanno di Il traditore e di Martin Eden, perché sono ruoli importanti in grandi film. Ma in realtà quanti se ne possono contare di film del genere oggi tra le nostre produzioni?
«Beh, il mercato non può essere fatto solo di questi, però c’è stato un momento in cui di sicuro premiava le storie. Come produttore mi piacerebbe fare proprio questo. Cioè mettere al centro della narrazione la storia, così chi va al cinema e fa uno sforzo nell’andarci – ovvero uscire di casa, prendere la macchina, andarsi a mangiare una pizza dopo – abbia il beneficio di aver fatto sua una vicenda che ha compreso. Questo secondo me deve fare la differenza. Questa è la cosa su cui io ho intenzione di impegnarmi molto».
Ti piacerebbe anche dirigerlo qualche film?
«Al momento faccio l’attore e il produttore, e sono già due impegni belli importanti. Non vorrei che arrivasse come un passaggio obbligato. Voglio ancora imparare alcune cose del mio mestiere e non mi sento affatto di essere arrivato al punto in ti dici: “Ho fatto tutto quello che potevo fare”. Vedo anche i punti su cui posso lavorare per migliorarmi e per arrivare dove questo mestiere può portarmi. Per cui mi piace, mi intriga, mi attira molto la macchina da presa perché sono anche un grande appassionato di cinema, ma non so se ho quel talento – e non lo puoi sapere fino a quando non provi a farlo – e non ho ancora sentito l’esigenza irrefrenabile di misurarmi in quel senso».
Rispetto alle cose che hai detto: la curiosità, il misurarsi con nuove sfide, l’esperienza… Una cosa che a me colpisce molto del tuo percorso è che tu, sempre considerando gli attori della tua generazione, sei quello che ha lavorato di più all’estero, in particolare nel cinema americano. Ma non necessariamente andando a fare il protagonista, cioè è come se tu avessi avuto voglia di misurarti con quell’industria anche magari in ruoli meno importanti, più di contorno. E io in questa scelta vedo proprio una curiosità, una voglia di capire anche i meccanismi di quel mondo.
«Innanzitutto mi premeva proprio capire le differenze di come funzionava il lavoro dal punto di vista della produzione. E ce ne sono parecchie. Sia dal punto di vista della grande macchina industriale, quando hai a che fare con film ad altissimo budget, sia dal punto di vista della cultura del lavoro, che è molto diversa. Non basta parlare l’inglese, perché non è solo una questione di lingua la comunicazione. Devi capire proprio come funzionano le loro storie, capire la differenza con le nostre storie. Le differenze tra i loro eroi e i nostri. I loro sono prestanti, i nostri sono più latini, con tutto quello che ne consegue. Ad esempio Pinocchio ha bisogno della fatina per salvarsi… L’eroe della favola anglo-americana invece se la sbriga sempre da solo. Questo consente a Bruce Willis di salvare il mondo e a me invece di aspettare che Dio scenda in terra. Curioso però che adesso anche loro hanno iniziato ad aver bisogno degli dèi, perché ad esempio sono arrivati gli Avengers a tirarli fuori dai problemi. Ecco, questo tipo di visione mi interessa. Poi avere l’opportunità di lavorare con le grandi star, tutto sommato anche per rasserenarsi rispetto a quella dimensione».
Rasserenarsi?
«Dobbiamo levarci un po’ di provincialismo dalla testa. Abbiamo un limite, che è anche la nostra grande arma a favore, la diversità linguistica. Però in questo momento vediamo invece quanto si stia globalizzando l’idea del raconto. Credo che l’unico modo in cui possiamo avere un ruolo più determinante all’interno di quell’industria sia attraverso un nostro film. La loro è un’industria privata, completamente, ed è estremamente piramidale, oltre ad essere molto legata all’incasso. Questa cosa non la scambierei col nostro mondo. La qualità di quello che facciamo non è legata solo all’andamento di una serata. E non è assistenzialismo la possibilità di dare a un regista una seconda o una terza opportunità. È al contrario comprensione del fatto che il percorso artistico non è un percorso esatto, e non è un percorso solo industriale. O può esserlo, ma magari solo per un certo tipo di cinema, non certo per i titoli di cui parlavi tu prima. Se si desidera e si vuole che il cinema cresca anche dal punto di vista dei contenuti e soprattutto dal punto di vista delle alternative, certamente bisogna dare il beneficio dell’errore. E il cinema americano questo non lo consente. Quello è un aspetto che non mi piace, non mi piace l’idea che esista una A List, una B List, una C List tra gli attori e tra i registi. E non mi piace non perché mi spaventi la competizione…».
Io questa cosa non la sapevo, poi avendo degli amici registi che lavorano anche negli Usa l’ho scoperta. Loro quando devono scegliere il cast hanno proprio delle liste con i costi medi, divisi in categorie… divisi proprio in modo formale…
«Sì, esatto… e quel che determina che tu sia nella lista A oppure nella B è semplicemente quanto incassa l’ultimo film a cui hai lavorato. Non certo quanto sei bravo. Ecco noi sotto questo aspetto fortunatamente siamo ancora legati, magari anche in modo involontario, a delle dinamiche più qualitative. E questa è una cosa che non scambierei. Poi io sono un attore profondamente europeo. E ne faccio un punto d’orgoglio, tant’è vero che nei piccoli ruoli che ho fatto non sono mai andato a fare il cliché dell’italiano e quando mi è stato proposto non l’ho mai preso in considerazione. Perché non penso che questa sia la nostra immagine, forse è più un retaggio degli anni ’50… E se gli americani non hanno la curiosità di vedere che cosa sta succedendo da questa parte del mondo non sono certo io a potergliela insegnare. Però magari posso evitare di aderire a cose che inizio a ritenere un po’ offensive».
Ti chiedo l’ultima cosa: quali sono i film che ti sono piaciuti di più tra quelli usciti nel 2019? Lasciando stare magari i titoli italiani…
«Ho molto amato Joker perché non avevo aspettative nei confronti del film, nonostante ne avessi sentito molto parlare, e mi ha sorpreso l’aspetto politico. Mi è piaciuto molto anche il film di Polanski. Ma devo ammettere di essere rimasto molto indietro nelle visioni quest’anno, perché ho lavorato tanto. Tarantino non lo metterei nella mia lista dei migliori invece… Parasite purtroppo non sono riuscito a vederlo».
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Parasite è interessante proprio per l’aspetto politico, diciamo che riprende in modo diverso il discorso di Joker: sono film politici ma paradossalmente anche super commerciali. Parasite, che è coreano, ad esempio ha incassato 100 milioni di dollari nel mondo. Joker più di un miliardo…
«Ognuno di noi vive delle vessazioni sociali in questo momento. Joker mi ha fatto riflettere molto lucidamente sul fatto che è un pericolo anche quante persone posano pensare che quella sia la soluzione».
Anche perché ci sono paesi in cui sono in corso fenomeni di piazza, come in Cile, in cui hanno già iniziato a mascherarsi da Joker…
«Ci può stare, per carità, però un film non può essere bollato per questo, non credo possa portare alla rivoluzione. Sicuramente può spronare a un approfondimento. Dubito che tutte le persone che hanno visto il Joker abbiano colto questo aspetto come un aspetto politico, e non solo come un aspetto legato all’intrattenimento. L’aspetto politico del film è un taglio che fa molto pensare».
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