Hayao Miyazaki è figlio del suo tempo: disegnatore, mangaka, maestro, cineasta e regista. Le sue storie hanno emozionato generazioni intere. E non solo in Giappone, ma in tutto il mondo. Il suo Oscar per La Città Incantata è solo la punta dell’iceberg: probabilmente, ne avrebbe meritati altri. Lui, intellettuale della china. Lui, esperto di aerei ed appassionato dell’occidente. Il suo cinema non ha niente di tradizionale – in Giappone è stato, ed è ancora, una rivoluzione. Per idee, modi e toni. Il governo lo addita come traditore – il suo ultimo film, Kaze Tachinu, è una critica piuttosto convinta alla guerra e al Giappone imperialista di qualche decennio fa. Eppure il suo pubblico continua a seguirlo. All’ultima edizione di Venezia, ha annunciato il suo ritiro dalle scene preferendo concentrarsi sui suoi cari, la famiglia e lo Studio Ghibli. Che continua a frequentare e in cui continua a lavorare. La Lucky Red distribuirà in Italia il suo Si alza il vento (così è stato tradotto da noi, partendo dal titolo inglese The Wind Rises) che in Giappone ha battuto ogni record.
Miyazaki il maestro, Miyazaki il pilota mancato, come si racconta nell’intervista che ha rilasciato a La Repubblica, pubblicata proprio questa mattina: «Da bambino desideravo diventare pilota. Impossibile con la miopia di cui ho sempre sofferto e che mi obbliga ormai a disegnare con il naso appiccicato al tavolo. Stesso problema di Jiro Horioshi», protagonista di Si alza il Vento, da noi probabilmente per Maggio, «che ha potuto pilotare solo le sue creature disegnate». «Io ho sempre praticato il pacifismo – continua il maestro – Il film, sui sogni infantili e la vita di Jiro Horikoshi, il capo ingegnere progettista degli Zero […] ha scatenato le ire della destra nazionalista nipponica per il ritratto al vetriolo dell’esercito imperiale». «Raccontare favole – spiega – non significa rinunciare a prendere posizione». Una posizione che Miyazaki ha avuto fin da quando era bambino, nato nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale. «Ero troppo piccolo per capire – racconta a La Repubblica – Ricordo la nostra fuga da casa, a Ustunomiya, un centinaio di chilometri a nord di Tokyo, la notte in cui è stata bombardata: ho visto i miei ammucchiare di corsa pentole e vestiti in una carriola mentre mio padre mi caricava sulla schiena. Ma per me, allora, è stata la festa del cielo: […] davanti a quella notte improvvisamente spalancata dalle luci».
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Fonte: La Repubblica
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