Iran, 2001. Una giornalista di Teheran, Rahimi (Zar Amir-Ebrahimi) si addentra nei sobborghi più malfamati della città santa di Mashhad, meta di pellegrinaggio perché luogo di sepoltura di un martire dell’Islam, l’Imam Reza, per indagare su una serie di femminicidi. Si renderà presto conto che le autorità locali non hanno fretta di vedere risolto il caso. Questi crimini sarebbero opera di un solo uomo, che pretende di purificare la città dai suoi peccati, attaccando di notte le prostitute.
Dopo il lavoro di intersezione e di confine tra fantasy e realismo portato avanti in Border, vincitore di Un Certain Regard nel 2018, il regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi approda in Concorso a Cannes 75 con un film che prende spunto dalla storia vera di Saeed Hanaei, serial killer iraniano che ha strangolato sedici prostitute, e realizza un esempio di thriller politico di straordinaria potenza e limpidezza formale. Un’opera, Holy Spider, al contempo dentro e fuori il genere, capace di ragionare sulle dinamiche cinematografiche della tensione e al contempo di guardare il dispositivo dall’esterno, per radiografare in chiave epidermica gli orrori sepolti nel tessuto antropologico e sociale del suo paese d’origine.
La messa a fuoco dell’immensa città iraniana di Mashaad è estremamente puntuale nella sua tattilità notturna, che raffigura spazi in putrefazione fisica e spirituale con coraggio da vendere e un respiro cupo e anti- epico che rimanda direttamente ai grandi film occidentali sui serial killer, il tentacolare Zodiac di David Fincher in primis. Abbasi però non si piega ad alcuna sterile e facile vocazione esterofila, neanche quando sembra strizzare l’occhio a Collateral di Michael Mann, ma si appropria di quei riferimenti evidenti per farli aderire alle scrupolose esigenze della propria narrazione, con un pathos morale che va a braccetto anche con la ricostruzione, nient’affatto in filigrana, di un agghiacciante caso di cronaca nera (si tratta oltretutto del primo film persiano, girato in Giordania, su un serial killer iraniano).
La parabola articolata dalla sceneggiatura è sempre credibile e stratificata, anche nei passaggi più rischiosi e accidentati, anche quando la temperatura della fibrillazione in scena supera il livello di guardia e si toccano noti politici scottanti relativi ai temi del fondamentalismo religioso e del maschilismo nell’Iran contemporaneo. In tal senso fa un lavoro egregio l’attrice protagonista Zar Amir-Ebrahimi (candidata di peso alla Palma alla miglior interpretazione femminile), il cui volto intenso e sfaccettato, segnato da un’accorata battaglia, è perfettamente raccordato con la dimensione da “thriller dell’anima” di Abbasi, tanto che il magnetismo investigativo e gli echi profondissimi della detection story paiono risplendere in primis nei suoi occhi tormentati eppure febbrili, nelle istanze di soggettività di cui si fa carico e nei semplici gesti di libertà, come togliersi il velo (il riferimento più banale e immediato potrebbe essere ovviamente la Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti) .
Forte di tale solidità interpretativa e drammaturgia, Holy Spider può osare anche l’inosabile, arrivando a mostrare, in una sequenza straziante, il re-enactment delle dinamiche degli omicidi da parte dei figli dell’assassino: un momento di cinema lancinante, tra i più intensi in assoluto del 75esimo Concorso del Festival di Cannes.
Foto: Profile Pictures, One Two Films, Wild Bunch International