House of Gucci racconta la storia di Patrizia Reggiani (Lady Gaga), una ragazza di umili origini che entra a far parte della famiglia Gucci, una fra le più celebri al mondo nel mondo della moda: la sua sfrenata ambizione inizierà ad incrinare i rapporti familiari, innescando una spirale incontrollata di tradimenti, decadenza, vendetta e infine… omicidio.
Il film che Ridley Scott ha dedicato alla vicenda dell’omicidio di Maurizio Gucci (Adam Driver), per il quale Patrizia Reggiani è stata condannata come mandante, è la seconda incursione del cineasta in cui un caso di cronaca nera a cavallo tra Italia e Stati Uniti, anche in questo caso consumatosi nel Bel Paese sul piano prettamente delittuoso, dopo Tutti i soldi del mondo, sul rapimento Getty, di quattro anni fa.
Pare quasi un nuovo filone nel quale il regista sembra sguazzare sornione, anche se la verosimiglianza della cronaca tanto nera quanto privata in questo caso non è esattamente la priorità (Patrizia e Maurizio si sono sposati nel 1972, per dire, mentre nel film si conoscono nel 1978) e abbondano le striature un po’ soapy e un po’ camp, con un qualche incursione più o meno deliberata nel trash volontario o involontario a corrente alterna.
La Reggiani di Lady Gaga, assai volenterosa nel riprodurre mimicamente e a tratti anche mimeticamente il suo personaggio, è il cuore pulsante e il grande catalizzatore anche mediatico di tutta l’operazione, a tal punto che le sua entrate e uscite di scena paiono influenzare, di volta in volta e a seconda dei casi, perfino i toni del racconto, spaziando dalla telenovela macabra – nei momenti più sulfurei, come dentro a un teatro di ombre sullo star system – al kitsch sopra le righe in quelli più (s)cult, come la prima scena di sesso tra i due coniugi o la pipì del Paolo Gucci di Jared Leto (l’interprete più in overacting in assoluto di un cast che non va decisamente per il sottile, anche nelle spigolature più altezzose come nel caso di Jeremy Irons/Rodolfo Gucci) sulla sciarpa di famiglia.
Non dà mai l’idea né tantomeno l’impressione di chiedere di essere preso troppo sul serio, House of Gucci, col suo andirivieni di intrighi, intrallazzi e momenti operistici che sembra fare il verso in chiave nemmeno troppo sotterraneamente parodica alle saghe familiari care a una precisa idea di epica cinematografica, collocandosi da qualche strana parte a metà strada tra Il Padrino e Beautiful. Al netto dei momenti più soporiferi e col pilota automatico, che non sono pochi, e dell’ovvio straniamento – specie da italiani – nel fare i conti con un cast che parla ininterrottamente in inglese con un marcato e macchiettistico accento tricolore – House of Gucci dimostra comunque una certa e a tratti irresistibile vitalità irruenta e patinata e, per chi riuscirà a tenere a debita distanza le voragini narrative e psicologiche più vistose, potrebbe anche essere in odore di sapido guilty pleasure.
Tratto dall’omonimo romanzo di Sara Gay Forden, che a differenza del film è puntiglioso e dovizioso e copre archi narrativi e storici piuttosto ampi, House of Gucci cerca soprattutto nella declinazione romanzesca e derivativa del glamour a tinte forti la propria via al grande racconto epico-popolare, anche se si tratta di una lente deformante e una prospettiva d’azione che gli riescono solo in parte, visto che troppo spesso finisce grottescamente con l’essere messo fatalmente sotto scacco da tale esuberante incrocio di moda, denaro, mafia movie e ossessioni coniugali e sentimentali.
Foto: Metro-Goldwyn-Mayer, Bron Studios, Scott Free Productions
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