Da qualche giorno è disponibile su Netflix il sequel di uno dei film più conturbanti degli ultimi anni, quantomeno per le premesse che mette in campo: Il Buco, uscito nel 2019 per la regia di Galder Gaztelu-Urrutia, è diventato un piccolo caso, e il suo successo ha garantito al regista spagnolo la possibilità di girarne un sequel che, tuttavia, continua a non rispondere alla domanda che si sono fatti tutti gli spettatori.
Come noto, Il Buco o The Platform è ambientato in un’immaginaria prigione verticale che si sviluppa per oltre 300 livelli. Su ogni livello ci sono due persone e ogni giorno una piattaforma carica di cibo scende dall’alto al basso. La voracità dei piani alti impedisce a chi è in basso di mangiare, ma ogni mese le posizioni vengono cambiate e la sola speranza dei detenuti è risvegliarsi più in alto possibile.
L’intera trama è molto allegorica: parla chiaramente delle disparità nella distribuzione della ricchezza, della plutocrazia imperante nella società moderna, di cosa sono disposte a fare le persone in difficoltà e nel sequel esplora la possibilità di un’utopica auto-regolazione socialista delle risorse che tuttavia non garantisce pace agli “abitanti” della prigione. Temi seri, esplorati in maniera più o meno riuscita dal film e relativo seguito, ma in entrambi i casi resta il mistero: a cosa serve questa struttura e chi l’ha creata?
È probabilmente il più grosso punto di domanda che aleggia su tutta la storia. Tramite piccoli flashback all’inizio del secondo film, abbiamo infatti scoperto che ai prigionieri viene fatto un’interrogatorio per scoprire non solo quale sia il cibo che vorrebbero trovare ogni giorno sulla piattaforma, ma anche i motivi per cui sono finiti al Vertical Self-Management Center. Sembra quindi che non si tratti di un centro di detenzione tout-court, dove le persone vengono obbligate a stare, ma anzi è un mix tra chi è stato mandato e chi si è volontariamente iscritto.
Saggiamente, Il Buco non risponde a questa domanda, perché il mistero è la chiave del fascino del film. Meglio lasciare alla fantasia del pubblico la verità dietro alla prigione verticale, specie perché via via che si scende la vicenda diventa ancora più allegorica (la bambina è il messaggio, i figli sono il futuro etc). Non sappiamo quindi chi sia l’Amministrazione o quegli strani dipendenti che a gravità zero riordinano i livelli ogni mese, non conosciamo chi ci sia dietro alle cucine intraviste nel primo film e tanto altro, ma in fondo va bene così.
Se dovessimo però formulare qualche ipotesi, varrebbe quasi tutto: potrebbe trattarsi di una qualche forma di esperimento sociale perverso à la The Experiment – Cercasi cavie umane, potente film tedesco del 2001 che immagina persone volontariamente iscritte come prigionieri e carcerati per valutarne le reazioni; ma considerando gli aspetti più futuristici della struttura non è da escludere che oltre l’aspetto allegorico possano celarsi alieni o addirittura essere l’inferno stesso.
Nonostante il colpo di scena finale de Il Buco 2, non è escluso che Netflix porta portare un terzo capitolo sul proprio catalogo. In qual caso, nonostante l’enorme curiosità, Galder Gaztelu-Urrutia farebbe probabilmente bene a non rispondere a questa domanda e lasciarci crogiolare nel dubbio sulla vera natura della prigione verticale.
Foto: Netflix
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