Il cinema che non disturba nessuno
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Il cinema che non disturba nessuno

Il cinema è rappresentazione: se la rappresentazione diventa una questione politica non stiamo più parlando di arte ma, appunto, di politica

Il cinema che non disturba nessuno

Il cinema è rappresentazione: se la rappresentazione diventa una questione politica non stiamo più parlando di arte ma, appunto, di politica

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Qualche settimana fa è uscito in sala The Whale, il film di Darren Aronofsky con Brendan Fraser su un uomo patologicamente obeso. In sala è andato piuttosto bene e molto è dipeso dal buon passaparola. Quando avevo visto il film a Venezia, commuovendomi, ero abbastanza sicuro che avrebbe colpito anche il pubblico: dalla scrittura alla recitazione, fino alla parte tecnica, tutto funziona, e le tematiche (il senso di colpa, il potere della letteratura, il valore rivoluzionario della gentilezza) sono affrontate con grande sensibilità.
 
Tuttavia sono mesi che sui social e su molte testate di settore si parla di The Whale per ragioni diverse: la “rappresentazione” dell’obesità, la tuta indossata da Fraser per simulare il corpo di un uomo di 300 chili e il fatto di aver utilizzato un attore non obeso per interpretare un obeso. Certo, non è la prima volta che la conversazione prende questa piega, anzi sembra che ormai non si parli d’altro: quote, rappresentazione, tutela delle minoranze
 
Non contesto certo questo genere di prospettiva in sé, anzi: la spinta progressista data da una consapevolezza che pare sempre più diffusa nelle nuove generazioni è fondamentale per il progresso sociale. I problemi però sono due. Il primo: quando questa spinta diventa un’opportunità commerciale e quindi una linea editoriale (e quindi una forma di pressione su autori e registi), l’omologazione finisce per uccidere la creatività. Basta guardare Netflix, dove c’è molta qualità ma anche decine di serie che sono il clone l’una dell’altra. 
 
Il secondo: non si può fare i critici e gli attivisti allo stesso tempo. Consideriamo i cosiddetti “trigger”: avete mai sentito questa parola? È un termine mutuato dall’ambito psicologico e legato alle esperienze traumatiche. In sostanza si tratta di stimoli che rischiano di risvegliare un trauma in chi ne ha sofferto. Per questo ora spopolano i cosiddetti “trigger warning” : vi sarà capitato di vedere prima dell’inizio di una serie dei cartelli che recitano “Questa serie contiene scene di disturbi alimentari” oppure “Questa serie contiene scene di violenza domestica” oppure “Questa serie contiene scene di bullismo”, eccetera… “Gli spettatori più sensibili sono avvisati”.
 
Ma i traumi, così come i “trigger”, sono potenzialmente infiniti e l’unico modo per non turbare nessuno è smettere di raccontare storie. Portando infatti la filosofia del critico-attivista all’estremo, nessuna esperienza disturbante dovrebbe essere riprodotta in un contesto di finzione. Di questa visione risentono, in particolare, i film che sono “spietati” con i loro protagonisti, come Blonde di Andrew Dominik e il citato The Whale. Non importa che siano film con una visione di fondo progressista, e non importa che si tratti di attori e personaggi: registi e autori sono processati come se avessero commesso degli abusi su persone reali. E le opere vengono massacrate.
 
Il cinema è rappresentazione: se la rappresentazione diventa una questione politica non stiamo più parlando di arte ma, appunto, di politica

Foto: A24 / Netflix

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