Bryan Stevenson (Michael B. Jordan) è un giovane afroamericano laureato in legge ad Harvard. Potrebbe fare carriera nel Nord degli Stati Uniti e invece sceglie di lavorare, in gran parte pro bono, per difendere i condannati a morte in Alabama, molti dei quali non hanno beneficiato di un regolare processo: e quasi tutti sono neri come lui. Fra questi c’è Walter McMillian (Jamie Foxx), per gli amici Johnny D., nel braccio della morte per l’omicidio di una 18enne bianca: un delitto al quale è completamente estraneo, ma per il quale bisognava trovare un colpevole in fretta, per “tranquillizzare la comunità” (bianca).
A partire da una storia vera dal forte impatto civile, Il diritto di opporsi, diretto da Destin Daniel Cretton e sceneggiato da Andrew Lanham insieme a quest’ultimo, è un solido film di denuncia che si scaglia in maniera accorata, con punte di sanissima violenza dialettica, contro la grettezza giustizialista di una certa fetta dell’America bianca verso i cittadini di colore. Solo pietà, Just Mercy, recita non a caso il titolo originale.
Siamo negli Stati Uniti del Sud, una zona dell’America che in più di un’occasione ha legato il proprio nome a questo tipo di episodi e che l’immaginario collettivo ha più volte raccontato in questa chiave. La vicenda dell’avvocato Bryan Stevenson, interpretato da un coriaceo Michael B. Jordan alle prese con un ruolo impegnato dopo Creed, è ritagliata sulle autentiche battaglie di quest’uomo di legge che per tutta la vita ha tentato di riscattare le sorti di quanti erano stati privati della libertà con processi sommari, spesso basati su perizie e testimonianze a dir poco discutibili (il vero Stevenson ha fondato l’Equal Justice Initiative, organizzazione no-profit per l’assistenza legale a chi è posto nel braccio della morte).
Il diritto di opporsi, dal canto suo, ricalca la tradizione liberal di tanto cinema statunitense: talvolta il rischio, in questi casi, può essere quello di vedere tracimare la retorica incorporata oltre il livello di guardia, con un rincorrersi di semplificazioni meramente strappalacrime e a effetto. Un’insidia che però Il diritto di opporsi riesce a sorvolare affidandosi a una scrittura vibrante ma appassionante e misurata, a un tasso di idealismo necessario e legittimato dall’oggetto del racconto: un sentimento immortalato tra luci e ombre, tra desideri di cambiare il mondo e flussi di potere e coercizione che passano sopra le teste di tutti, pronti in qualsiasi momento a calare la propria mannaia e spalancare il sentiero inesorabile e disumano verso la sedia elettrica.
Il punto di partenza, che fa da puntello per il copione, è il libro memoriale dello stesso Stevenson, e l’Alabama raccontata nel film è la stessa di un testo chiave, nell’ottica dei temi che Il diritto di opporsi affronta, come Il buio oltre la siepe della scrittrice Harper Lee (l’omicidio di cui si parla oltretutto è avvenuto proprio a Monroeville, città in cui il romanzo è ambientato, come spesso si ripete nel film). Il protagonista, un po’ come l’Adam Driver di The Report, è sprovvisto di una vita sentimentale e sessuale e dedica ogni anfratto del suo tempo, anche libero, alla missione designata della sua vita e alla sue pratiche di lavoro. Un’attività che gli consente di dare alla sua indignazione, rappresentativa della comunità black e molto radicata nella sua infanzia, delle basi concrete e scientifiche, con un corredo di prove da setacciare con costanza indistruttibile.
La misura dell’operazione e della sua efficacia è però offerta dall’intero cast, tutto in estrema forma, con uno sviluppo attento anche dei personaggi in apparenza secondari (procedimento di cui il cinema americano medio è spesso maestro): Brie Larson ha un piccolo ruolo nei panni della segreteria di Stevenson, nel quale risulta comunque dolce e credibile, ma a rubare la scena sono soprattutto Jamie Foxx, abilissimo nel restituire le smorfie di dolore e rassegnazione del suo personaggio, un lancinante Don Cheadle nelle vesti di un altro, anziano uomo di colore dal destino segnato, oltre che ancora assediato dai fantasmi del Vietnam, e Tim Blake Nelson, nei panni del testimone chiave del processo McMillian, che recita con bocca deforme e parlata schizofrenica e strascicata.
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