Mi permetto, per una volta, di iniziare una recensione con un aneddoto: in fila alla mensa della mostra, poco prima di entrare alla proiezione di Paradise: Faith dell’austriaco Ulrich Seidl – presentato in concorso al Festival – avevo detto a un collega “Ci sarà come minimo una scena di masturbazione con un crocefisso”. La scena in questione oggi occupa i titoli di quotidiani e siti internet. Non sono un chiaroveggente: la mia previsione dipendeva dalla conoscenza dell’autore del film e del tema della storia portata a Venezia. Ma non sono nemmeno l’unico che conosce Seidl, ovviamente. Quindi ogni espressione di scandalo o sorpresa di cui leggerete (altrove) si chiama Gioco delle Parti.
Allora, chi è Ulrich Seidl? È un autore austriaco i cui film sono spaccati sociali cinici e pessimisti. Ama insistere sulla bruttezza fisica (nei suoi film i corpi nudi, flaccidi, obesi, abbondano) e morale dei suoi protagonisti, che riprende con camera fissa, dopo averli piazzati in ambienti spogli, splendidamente illuminati. Per dare un riferimento, il suo cinema potrebbe essere ricondotto a quello di Michael Haneke, per la messa in scena gelida e lo sguardo brutale sulle miserie umane. Quest’anno Seidl ha deciso di calcare ulteriormente la mano, e sta presentando ai festival europei la sua Trilogia del Paradiso. Amore, Fede e Speranza – terna alterata delle virtù teologali – vengono rappresentate in altrettanti film come sentimenti grotteschi, fallimentari, disumanizzanti.
E così, dopo Paradise: Love – presentato a Cannes – che parlava d’amore raccontando il turismo sessuale di un gruppo di corpulente turiste tedesche in Kenya, Paradise: Faith è incentrato sul ritratto di una fervente cattolica convertita, che passa le giornate tra proselitismo, autoflagellazione, gruppi di preghiera, canti sacri, lunghe chiacchierata con il crocefisso. In una delle prime sequenze, la donna attraversa in ginocchio tutta la casa recitando l’Ave Maria. In un’altra fa visita alla casa di una prostituta russa ubriacona, con l’obiettivo di convertirla, fino a che le due vengono alle mani.
L’equilibrio della donna va in pezzi quando torna da lei, dopo due anni di assenza e un incidente che lo ha costretto sulla sedia a rotelle, il marito, conosciuto prima della conversione. Un marito musulmano e ancora apparentemente innamorato. La donna lo respinge, rifiuta perfino di farsi abbracciare, anche perché la sua vita sentimentale e carnale sembra del tutto appagata dal rapporto con il divino (non solo nella scena citata, ma anche in altre in cui bacia ripetutamente la Croce, o negli stessi momenti in cui indossa il cilicio o si fustiga). E la situazione non fa che peggiorare, fino ad un finale tronco, dovuto probabilmente al fatto che i tre film all’inizio avrebbero dovuto essere un’opera sola.
Di fronte a film del genere, l’unica domanda che vale la pena porsi è cosa diano allo spettatore in cambio del tour de force cui lo sottopongono. E qui, al di là di qualsiasi digressione moralista, sta il problema. Mentre Paradise: Love fotografava uno spaccato sociale poco conosciuto con misura e perfino un certo afflato umanista, mostrando compassione per i personaggi, Paradise: Faith – affondando più direttamente le mani nel tema religioso – dà sfogo a tutti i più ovvi istinti distruttivi di Seidl, alle sue idiosincrasie. Travalica il ritratto sociale, e si trasforma in fumetto grottesco, in una farsa familiare con momenti quasi da Casa Vianello (la litigata per il gatto, quella davanti alla TV, il braccio di ferro per la scelta della foto da tenere sul comodino). E con l’eccezione di una singola scena (quella nella vasca da bagno, in cui la donna taglia le unghie al marito), qualsiasi empatia e qualsiasi pietà scompaiono, ogni corpo diventa carne da macello.
Alla fine risultato è che nessuno – nel 2012, a un Festival di cinema, e probabilmente neppure altrove – si sente spiazzato, o chiamato in causa, anzi: in platea si commenta ad alta voce e si sghignazza. E se hai un minimo di malizia cinefila, il film l’hai già visto ancor prima di entrare in sala. Ma un film che mira a colpire così in basso e poi non colpisce nessuno, che come massimo risultato ottiene i titoli dei giornali per una scena di masturbazione, a che dovrebbe servire?
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