È una giovane donna determinata a vincere il dolore la protagonista di Un giorno devi andare, terzo film diretto da Giorgio Diritti: regista che si è fatto conoscere con il film rivelazione Il vento fa il suo giro e nel 2009 ha vinto il Festival Internazionale del Film di Roma con L’uomo che verrà. Girato tra l’Amazzonia e il Trentino Alto Adige, Un giorno devi andare segue la vicenda personale di Augusta, interpretata da Jasmine Trinca, che parte alla volta delle missioni cattoliche in Amazzonia quando il suo matrimonio naufraga a causa della propria sterilità. Nel tentativo di lasciarsi alle spalle quanto di brutto le è capitato, la donna proverà prima a cercare conforto nella fede, poi nelle favelas in mezzo alle persone più umili, fino ad arrivare a stabilire davvero un dialogo con se stessa lontano da tutti, dove la natura è ancora ostile e selvaggia. Presentato ieri a Roma, Un giorno devi andare arriva nelle sale il 28 marzo dopo un buon successo di critica (ne hanno parlato bene sia Variety che Hollywood Reporter) e pubblico ottenuto al Sundance Film Festival, dove la pellicola era in concorso. In un panorama produttivo, quello italiano, fatto per lo più di commedie, il lungometraggio di Diritti parla una lingua del tutto diversa, puntando tutto su immagini e tematiche importanti quali il senso della vita e la fratellanza: una pellicola dal sapore autoriale per la quale il distributore, Bim, e i produttori, AranciaFilm, Lumiere & Co. e Groupe Deux, in associazione con Wild Bunch e Rai Cinema, hanno pensato ad un lancio, anch’esso, fuori dal comune con una presentazione-anteprima il 27 marzo, in diretta via satellite in 40 sale in tutta Italia, durante la quale cast e regista saranno intervistati per 30 minuti dal critico Gianni Canova. Un evento, a 24 ore dall’uscita ufficiale in sala, che dovrebbe servire a sviscerare un po’ i tanti argomenti del film, e che Best Movie precede a sua volta con questa chiacchierata assieme al regista e sceneggiatore, Giorgio Diritti.
Augusta arriva in Amazzonia con una suora per l’opera di evangelizzazione, ma il film pare fornire sempre una lettura laica di quello che accade. È davvero così?
«Mi interessava fare un film che fosse occasione di viaggio, mi piaceva che ogni spettatore potesse essere accanto alla protagonista per scoprire cose e vivere emozioni interiori, magari con sfaccettature diverse, le stesse della nostra vita di tutti i giorni: il viaggio ti aiuta a interrogarti e ridefinisce le priorità. Augusta desidera tornare ad essere felice e vivere meglio, un desiderio che credo abbiamo in molti specie dopo anni e anni di consumismo che ci ha regalato, sì, sviluppo tecnologico, ma anche un grosso senso di pesantezza e freneticità».
Come ne L’uomo che verrà anche qui ritroviamo delle figure femminili forti che portano avanti tutto il film. Perché questa scelta?
«Le donne hanno una capacità diversa di aprirsi. Nel mio film precedente si vede come gli uomini siano spesso accecati dall’orgoglio e occupati ad affermarsi, a dominare l’altro, mentre la donna è portatrice di vita e quindi la tutela sempre. Le donne si sforzano di approcciarsi alle cose della vita in modo diverso, sono sempre portate all’accoglienza; l’uomo spesso al respingimento. Mi sembra interessante parlare di donne nei miei film, mentre mi intristisco un po’ a sentire discorsi sulle quote rosa che mi fanno venire in mente le quote latte… Ma se non c’è altro modo per cominciare a considerare meglio le donne, accetto anche le quote rosa. La vicenda di Un giorno devi andare l’ha ispirata un uomo, un missionario italiano conosciuto dal mio co-sceneggiatore, Fredo Valla, nel 2000 in Amazzonia, ma abbiamo pensato che farlo diventare una donna ci avrebbe consentito di farne un film sul senso della vita».
Anche in questo film parli di maternità, seppur negata. Come mai? La nascita è una specie di filo conduttore degli eventi per te?
«Dipende. Ne L’uomo che verrà faccio nascere un bambino di cui però poi mi chiedo quale sarà il destino. Qui utilizzo la maternità per parlarne in modo più ampio: non solo la madre e il suo bambino ma anche la capacità di prendersi cura gli uni degli altri. Augusta imparerà che non può essere madre in senso stretto ma può far parte di una comunità, legarsi ad esse e mettersi al suo servizio».
La comunità è infatti un altro tema a te caro. In che modo lo hai utilizzato stavolta?
«Volevo raccontarne la preziosità, mostrare come il bene del singolo passi prima dal bene della comunità: se sappiamo fare gruppo troviamo la chiave della felicità altrimenti no. In Un giorno devi andare parlo del modo in cui la dimensione del progresso può mettere a repentaglio la comunità, facendo sfollare la favelas per trasferire tutti in moderni piccoli villaggi. In questo modo le persone avranno delle vere case, certo, ma perderanno il rapporto con il luogo dove sono nate e con quel senso unico del vivere che hanno costruito negli anni. Troppo spesso il progresso quando arriva calpesta tutto il resto».
È un film che attinge anche dal tuo personale? Che rapporto hai con la religiosità?
«Pochi giorni prima di partire per l’Amazzonia ho subito la perdita di mia madre. Vengo da una famiglia cattolica e ho una fascinazione per il cristianesimo e andare in quei luoghi dopo un dolore così forte è stato importante: la vita ti porta a vacillare nella fede dopo eventi drammatici ma nella scrittura del film mi sono sentito di lasciar trovare a ciascuno spettatore le risposte. Indipendentemente dall’avere fede o meno, penso che oggi viviamo una vita troppo di testa, mentre dovremmo lasciarci guidare più dall’istinto, dalla pancia».
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