Dallo scorso febbraio, Roberto Recchioni (fumettista e romanziere, oltre che curatore di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore) firma su Best Movie “A scena aperta”, rubrica in cui svela i segreti delle scene più belle dei film disponibili in home video.
SIAMO POCO OLTRE LA METÀ ESATTA DEL FILM. Fino a questo momento Il ponte delle spie è stato uno splendido racconto di eroismo civico, narrato con quella sobrietà da film d’altri tempi, alla maniera di Mr. Smith va a Washington o Arriva John Doe. Del resto, il fatto che Spielberg abbia un debole per Frank Capra non è una novità per nessuno. L’unica concessione alla spettacolarizzazione che l’ex-enfant prodige di Hollywood si è concesso fino a questo momento è una breve scena dedicata all’abbattimento di un caccia americano sopra il territorio sovietico. Per il resto, da oltre un’ora la pellicola ci ha proposto una misurata visione degli Stati Uniti d’America a mezza via tra le rassicuranti illustrazioni di Norman Rockwell e gli inquietanti ritratti di Francis Bacon, come a dire che se da una parte il valore dell’american way è assolutamente fuori discussione, sono invece gli esseri umani a rappresentare un elemento di potenziale degenerazione.
Ma tutto questo è un discorso valido per la prima metà del film, appunto: quando la vicenda si trasferisce nella Berlino della guerra fredda, il discorso cambia perché lo scenario e i fatti necessitano di essere raccontati con un respiro più ampio. Spielberg dismette quindi i panni del regista invisibile alla Billy Wilder e indossa quelli che gli sono più consoni, ovverosia le vesti del regista di storie più grandi della vita stessa. Coadiuvato dalla fotografia di quel genio vivente noto con il nome di Janusz Kaminski, Spielberg inizia quindi a raccontarci una Berlino Est ancora segnata dagli orrori della seconda guerra mondiale. Siamo dalle parti di Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan ma la presenza a schermo di un Tom Hanks mai così eroicamente borghese, cambia completamente la natura di quanto stiamo vedendo. La scena che meglio di molte altre racconta il film è sicuramente quella che si apre con il primo viaggio del protagonista attraverso la città divisa. Si comincia con un treno in corsa. Dal vetro del vagone vediamo il personaggio di Hanks che spia lo scenario fuori (immagine 1 della gallery in fondo all’articolo). Il treno corre da destra verso sinistra, in senso inverso a quello che la normale narrazione prevede, per servire meglio la soggettiva immediatamente successiva in cui, attraverso gli occhi dell’avvocato James Donovan, vediamo l’appena costruito muro di Berlino (immagine 2). Kaminski ci regala una paletta cromatica bluastra e livida, riscaldata appena dalle severe luci elettriche delle torrette di guardia (immagine 3). L’attimo dopo siamo al confine. La camera inquadra un cartello stradale e poi, con un movimento di rara eleganza, ci mostra l’arrivo del protagonista in coda alla lunga fila davanti alla frontiera (immagine 4). Il lavoro svolto dalla costumista qui è discreto ma di estrema efficacia e, senza la necessità di nessun artificio, Hanks spicca nella massa dei disgraziati che appaiono nell’inquadratura (immagine 5). Se non ci fosse lui, con il suo cappotto e il suo cappello, questa scena potrebbe tranquillamente uscire da un film d’ambientazione nazista, invece la sua presenza a schermo funge da violento contraltare narrativo.
Questo non è un film che appartiene a un altro tempo. Questo è un film che parla della nostra epoca, un periodo in cui un uomo del tutto normale, un borghese qualsiasi, non diverso da tutti noi, può sembrare un alieno venuto da un’altra dimensione in mezzo alla massa preponderante di sfortunati rifugiati che sono a un solo passo. Hanks scende lungo la fila e si confronta con le guardie di frontiera (immagine 6). Anche qui, se non fosse per il cappotto del protagonista, si potrebbero scambiare i soldati per dei nazisti. L’attimo seguente siamo per le strade della Berlino dall’altra parte del muro, una cittadina in cui la legge è labile e l’autorità contesa. Il primo essere vivente in cui incappa è un cane randagio che rovista nei rifiuti (immagine 7), esattamente come capita al ronin senza nome di Akira Kurosawa in La sfida del samurai (Yojimbo) e al Clint Eastwood di Per un Pugno di Dollari (che di La sfida del samurai è il remake non accreditato). Potrebbe apparire un parallelismo forzato ma, in realtà, il ruolo che tanto Tom Hanks quanto i protagonisti delle pellicole di Kurosawa e Leone andranno a ricoprire è analogo: quello dell’Arlecchino servo dei due padroni, impegnato a vendersi prima a un gruppo di potere e poi all’altro, con lo scopo di ottenere qualcosa che nessuno dei due vuole dargli. Anche la scena successiva trova un’eco forte nelle opere citate. Hanks viene fermato da un gruppo di teppisti tedeschi vestiti da rockabilly americani (altro tocco di gran classe per raccontare l’epoca del film) e rapidamente circondato (immagine 8). Il protagonista non si libera di loro spacciandoli con la spada o con la pistola, ma semplicemente cedendogli il cappotto, la sua armatura borghese (immagine 9). Un momento simbolico utile a suggerire in maniera discreta la fragilità della posizione del personaggio ma anche la sua ferrea intenzione di andare avanti nella sua impresa, costi quel che costi. La civiltà che conosciamo è alle nostre spalle, siamo in un mondo diverso (immagine 10). Un mondo più vecchio e più nuovo, al tempo stesso.
Con Il ponte delle spie, Spielberg consolida una volta di più la sua posizione di assoluto maestro. Il film è sobrio ed equilibrato, figlio di un classicismo profondamente consapevole ma mai di maniera. Un monumento alla migliore tradizione del cinema americano, un film che porta con sé le lezioni del passato senza rinunciare mai a uno sguardo sul presente. Grande classe visiva al servizio di una grande storia. Da vedere come antidoto a tanto cinema innamorato di se stesso che oggi ci viene spacciato come capolavoro.
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