Il prezzo della libertà
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Il prezzo della libertà

Il prezzo della libertà

La libertà ha un costo. La libertà ha un peso. La libertà è figlia della verità. L’ho letto da qualche parte. La libertà è quella cosa per cui dimentichi le cicatrici, ma non per questo loro poi vanno via. È tutto così sottile che basta pochissimo per distruggere ogni lamina di questo cristallo che è la vita di ognuno di noi, certo. Ma adesso penso a me, penso ai miei. Penso ai miei simili. Che non sono mai uguali tra di loro, ma vivono dentro Giochi senza frontiere e sono tutti, sempre, San Marino. Faccio un tampone a settimana, anche due. Sono l’unico senza mascherina in mezzo a una troupe che fa i salti mortali per rispettare i protocolli. L’infermiera che fa i tamponi la mattina è meno bardata della truccatrice sul set, che sembra uscita da una puntata di un crime. Ma uno vero, uno americano, non RIS, che l’ho fatto pure io e non si offenda nessuno. I protocolli. Quella cosa per cui adesso no, adesso è un incubo andare sul set. Che vorresti evitarlo, perché ogni settimana un positivo magari salta fuori e allora scatta la paura. E l’ennesimo tampone. Col fonico che ti tocca coi guanti, con la costumista che non sa come attaccare quell’ultimo bottone, con l’attrezzista che ti deve passare il panino che devi mangiare, dopo aver scartato tutte le monoporzioni. E sono fortunato.

La verità è che sono fortunato e per questo sono libero. Libero di continuare a vivere una vita limitata ma che mi fa stare sui treni, mi fa viaggiare, mi fa lavorare, mi fa guadagnare. E un po’ mi vergogno. Anche. Sono libero e sono ancora spaventato. Perché poi, ogni volta che torno a casa, non posso vedere mio nonno, e faccio un altro tampone e aspetto. E spero. Costa la libertà. E pesa. Perché sono fortunato. Lo sono sempre stato. E mi pesa guardarmi attorno e avere contezza ancor di più che non basta ricordarmi dei sacrifici che ho fatto, del rischio, dell’instabilità e precarietà del mio lavoro, perché in quel momento non sono a casa, ma sul set. E no, non opero a cuore aperto nessuno. E nemmeno decido, come succedeva un anno fa, chi attaccare o meno a un tubo. Ma riesco a dare ristoro, magari sorriso, magari emozione, a qualcuno che, nell’aridità sahariana che stiamo vivendo sotto troppi punti di vista, si fa bastare poche gocce pur di arrivare al giorno dopo.

La libertà mi mette in gabbia tirandomi fuori dalla gabbia. Io non so voi, ma non ne posso più. E penso alle migliaia di colleghi fermi, a chi fa spettacoli dal vivo che non vede un futuro; penso ai titolari dei service che si sparano un colpo in bocca perché non sanno come pagare i debiti. Non è una guerra tra poveri, e non è di certo una guerra e basta, che le metafore belliche hanno stufato e non bisognerebbe usarle più, se non per mero diletto. Non c’è un meglio, non c’è un peggio, solo: quando ne usciremo, e ne usciremo, andate al bar, al ristorante, andate dove volete. Passate davanti a una chiesa, che troverete aperta, e poi entrate in un cinema. E ditegli che siete lì in attesa che sistemi meglio le poltrone o che scelga con più cura la programmazione. Incazzatevi, se vedete un film brutto, e ditelo. Se ne vedete uno bello ditelo ancora più forte. A tutti. E poi tornate al cinema. E parlate col gestore. Ditegli che ci siete, ma che volete il meglio. Chiedetelo, pretendetelo e poi sorridete ed entrate a vedere un altro film. Non esiste il cinema senza i cinema, che non sono solo un lavoro, ma un’arte. Sono un posto. E a quel punto sentitevi liberi. Perché la libertà, in fondo, è partecipazione.

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