Nanni Moretti, è in visita a Los Angeles insieme ad altri registi connazionali per presentare il meglio della nostra produzione cinematografica. Insieme a lui ci sono anche Paolo Sorrentino, Francesca Archibugi, Maria Sole Tognazzi, Valerio Mastrandrea, Luca Marinelli e Margherita Buy. Ieri, Moretti – nel contesto della rassegna Cinema Italian Style alla American Cinemateque – il regista ha presentato la sua ultima opera Mia madre, in compagnia di John Turturro.
Lo abbiamo incontrato e intervistato a 360° sugli affetti, il suo cinema, i modelli, il terrorismo…
Dato che il suo film Mia madre è in parte autobiografico, che cosa le ha insegnato sua madre, professoressa di latino e greco?
«Ho imparato due cose da tutti e due i miei genitori, mia madre e mio padre: ad assumermi la responsabilità di quello che dico e di quello che faccio, che è un atteggiamento non molto diffuso in Italia, e poi, sempre da tutti e due, l’etica del lavoro e la passione per quello che si fa».
Aveva parlato di suo figlio Pietro da bambino nel film del 2001, La stanza del figlio. Che studi fa suo figlio adesso che è grande, e che tipo di padre è lei?
«Come padre sono molto apprensivo. Mio figlio ora ha 19 anni, ha fatto il liceo artistico, e da due mesi è a Londra a una università di Fine Arts».
Continua ad avere la stessa passione per il suo lavoro di quando era giovane, adesso che ha superato i 60 anni?
«Quando sta per avvicinarsi il primo giorno di riprese c’è sempre lo stesso panico come tanti anni fa, è sempre come se fosse il primo giorno di scuola. Ma mi sembra che sia intatta dentro di me la voglia di raccontare attraverso il cinema, come è intatta la curiosità di andare in sala a vedere i film degli altri. Quindi come regista e come spettatore, mi sembra di essere simile a come ero tanti anni fa».
Quali sono i suoi registi americani preferiti?
«Mi piaceva molto, ma è morto da molto tempo, John Cassavetes, e come a quasi tutti, mi piacciono i film di Martin Scorsese».
Pensa che i suoi film, pur essendo molto personali, possano aiutare il pubblico ad affrontare le difficoltà della vita?
«Sembra che io abbia avuto la fortuna di partire raccontando me, però di riuscire anche a raccontare gli altri. Anche quando i miei film non sono nel dettaglio autobiografici, comunque riflettono sempre quello che penso, quello che sento, in una certa fase della mia vita. A me fa molto piacere quando gli spettatori mi dicono che non hanno abbandonato un mio film dopo quell’ora e mezzo di proiezione, ma che quel film con il passare dei giorni continua a parlargli e a scavargli dentro. Io cerco di fare dei film personali, e alle volte questi film hanno avuto la fortuna di diventare universali. Però diffido di quei registi che con i loro film vogliono cambiare la testa degli spettatori».
Trova difficile capire i complessi problemi internazionali dei nostri giorni, come dice la regista protagonista di Mia madre?
«Assolutamente sì. La riflessione di Margherita Buy appartiene a me e a quello che sto provando in questo periodo. Anch’io sono molto confuso, forse perché ho occhiali vecchi con cui leggevo la precedente realtà, e faccio più fatica di un tempo a interpretare quella nuova. Però mi sembra che io riesca comunque a raccontare attraverso i miei personaggi una parte di realtà».
Mark Ruffalo, bravo attore anche impegnato politicamente, protagonista di Spotlight, mi ha detto ieri che spera che la reazione del mondo agli attacchi terroristici di Parigi non sia di tipo militaristico, come la guerra in Afganistan e l’invasione dell’Iraq dopo l’11 settembre. Lei cosa ne pensa?
«Ero appena arrivato qui e sono rimasto veramente sconvolto da quello che è successo, sono pieno di rabbia e di angoscia. E le domande sono tante. Chi riuscirà a fermare questi terroristi, e come? Ma penso che in questo momento non ci sia nessuno che abbia le risposte a queste domande».