Best Movie intervista Gianni Amelio
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Best Movie intervista Gianni Amelio

Una lunga chiacchierata con il regista di Il primo uomo, in sala dal 20 aprile

Best Movie intervista Gianni Amelio

Una lunga chiacchierata con il regista di Il primo uomo, in sala dal 20 aprile

Il termine “maestro” è spesso abusato quando si parla di cinema, ma per Gianni Amelio il titolo non è sprecato. Uno dei più importanti registi italiani, vincitore di Leone d’Oro, David di Donatello e Nastro d’argento (oltre che di un premio alla regia a Cannes), nominato all’Oscar nel 1991 per Porte aperte… non si contano più i riconoscimenti che Amelio ha ottenuto negli anni. Il 20 aprile Amelio tornerà in sala con Il primo uomo, tratto dall’omonimo romanzo semi-autobiografico di Albert Camus e interpretato tra gli altri da Maya Sansa. Un film piccolo che ha suscitato tanto clamore: prima l’esclusione dal concorso di Venezia, poi il premio della critica internazionale a Toronto 2011, infine, finalmente, l’arrivo nei cinema. Abbiamo intervistato Amelio, e questo è il risultato di una lunga e intensa chiacchierata con uno dei più grandi (nonché gentili e disponibili) registi italiani.

Best Movie: Come mai ha scelto di reinterpretare Camus, e come mai proprio Il primo uomo tra tutti i suoi libri?
Gianni Amelio: «Non l’ho scelto: mi è stato proposto, ed è stata un’offerta molto lusinghiera per me: Camus è uno scrittore immenso. Il primo uomo, poi, è una storia molto particolare: è quella della sua vita (anche se lui non usa il suo vero nome ma lo pseudonimo di Jacques), che parte da quando Camus era un bambino e anche prima, visto che lui va alla ricerca delle radici del padre. Raccontandola, lui prova a dare una spiegazione e una risposta alla tragedia del momento in cui scrive, cioè la storia della guerra d’Algeria e della dominazione francese, ma anche la storia del dominio francese in Algeria, quello già raccontato da Pontecorvo in La battaglia di Algeri. La posizione di Camus sulla questione mi ha convinto: lui, che di fatto era algerino, era d’accordo con le istanze indipendentiste ma non condivideva i metodi violenti con cui gli algerini le perseguivano, diversamente dagli altri intellettuali dell’epoca come Sartre. È un messaggio sempre attuale: lo era ieri, lo è oggi e temo lo sarà anche domani».

BM: A leggere le vostre biografie si trovano notevoli somiglianze tra la sua vita e quella di Camus…
GA: «È vero, e sono stato fortunato, la proposta di girare Il primo uomo la vedo un po’ come un regalo: nella sua storia ho ritrovato la mia. Come Camus, anche io sono cresciuto con mia madre e mia nonna e non ho mai conosciuto mio padre, ho trovato un maestro che dalle elementari in avanti mi ha spinto a continuare a studiare… questo mi ha permesso di immedesimarmi meglio nella sua storia, e mi ha aiutato molto».

BM: Quindi il film è una trasposizione fedele del romanzo?
GA: «Non proprio: per esempio, nel libro mancano quasi totalmente i dialoghi, quindi ho dovuto reinventarmeli io per piegarli alla mia storia. Fortunatamente, la figlia di Camus li ha letti e ha detto di averci ritrovato il padre, quindi credo di aver fatto un buon lavoro. Poi c’è da dire che non potevo raccontare tutto quanto, così ho privilegiato la parte più attuale del libro, quella legata al ’57, anche perché mi piaceva l’idea di esplorare il rapporto con la madre ritrovata. Voglio dire, abbiamo uno scrittore famoso che torna in Algeria con l’idea di scrivere un libro sul padre mai conosciuto e invece scopre la figura della madre, e scopre che deve tutto a lei, che è lei la sua figura di riferimento, come educazione e personalità. È un po’ come scoprire che molte delle idee che ci hanno trasmesso, quella del padre come faro ed esempio per un figlio, non sono altro che miti».

BM: C’è però anche dell’attualità nella storia di Il primo uomo.
GA: «È un film che parla anche ad altri Paesi, anche a noi: il problema del terrorismo, della bomba che esplode in metro, può interessare chiunque, che viva in Algeria o a Londra. Non c’è più un posto nel mondo in cui ci si possa sentire al sicuro. L’idea che ci sia qualcuno che si sente comunque minacciato da questo modo di pensare e di agire – nonostante magari sia d’accordo con le istanze politiche di chi rivendica la libertà –, ecco: questo è un tema non solo di ieri e oggi, ma purtroppo anche di domani».

BM: Essendo un film così legato all’Algeria, sarà stato girato tutto in loco, giusto?
GA: «Esatto, le location sono tutte algerine e gli attori sono tutti francesi o arabi: questi li ho presi tutti dalla strada, come da mia abitudine, anche perché in Algeria non esiste una cinematografia e non mi andava di andare a scavare nel mondo degli attori televisivi algerini. Oltretutto, tutti questi attori improvvisati sono personaggi che non esistono nel libro».

BM: È stato difficile girare in un Paese così distante da noi, anche culturalmente?
GA: «Andrò controcorrente e dirò di no: il cinema ha leggi e regole proprie, è come una città a parte con un linguaggio a parte, quindi non esiste alcun imbarazzo legato per esempio al fatto di non parlare la stessa lingua. Poi per fortuna parlo bene il francese e ho imparato qualche parola di arabo per l’occasione. Abbiamo girato ad Algeri e a Orano, che è la seconda città più grande del Paese, e poi tra le province, sul mare, nelle campagne, sfruttando una natura rara, incontaminata: l’Algeria non è un Paese turistico, sta cominciando ora a costruire qualcosa soprattutto sulle spiagge, ma è raro vedere uno straniero. È anche complesso dal punto di vista burocratico, tra visti e garanzie, ma una volta che sei dentro la gente è accogliente e collaborativa. Anche nella casbah, che ci avevano dipinto come un inferno: da questo punto di vista, quindi, girare Il primo uomo non è stato difficile. La difficoltà, semmai, era legata al fatto che si tratta di un film in costume ambientato in due epoche diverse, tra cui una, quella della dominazione francese, durante la quale i bianchi erano più degli arabi, contrariamente a oggi. È un film di pochi soldi e grandi ambizioni…».

BM: … e probabilmente fa anche un grande servizio all’Algeria.
GA: «È quel che mi auguro, ho voluto fortemente girare in Algeria invece che nelle più comode Tunisia o Marocco, e nonostante i sacrifici (a volte è stato difficile anche organizzare un pranzo) sono soddisfatto del risultato. Spero che la primavera maghrebina baci anche l’Algeria, perché se lo merita».

BM: E invece i risultati per il film? Siete stati anche a Toronto…
GA: «Sì, e non me l’aspettavo, ci hanno selezionato tra quasi 400 film… non ci credevo neanch’io, infatti non ero là alla cerimonia e mi hanno dovuto telefonare per dirmi che avevamo vinto. I miei amici algerini si sono scatenati su Internet alla notizia della vittoria».

 

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