Il Treno dei Bambini, perché il film di Cristina Comencini sulla miseria del dopoguerra ci ha spezzato il cuore
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Il Treno dei Bambini, perché il film di Cristina Comencini sulla miseria del dopoguerra ci ha spezzato il cuore

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e ora al numero 1 della classifica Netflix, il film è tratto dal romanzo omonimo di Viola Ardone, un bestseller tradotto in più di venticinque lingue del mondo

Il Treno dei Bambini, perché il film di Cristina Comencini sulla miseria del dopoguerra ci ha spezzato il cuore

Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e ora al numero 1 della classifica Netflix, il film è tratto dal romanzo omonimo di Viola Ardone, un bestseller tradotto in più di venticinque lingue del mondo

Il Treno dei Bambini

Già alla Festa del Cinema di Roma 2024 Il Treno dei Bambini di Cristina Comencini ci aveva decisamente commosso e convinto (qui la nostra recensione in anteprima). Ma dal 5 dicembre il film tratto dal romanzo omonimo di Viola Ardone – edito da Einaudi nel 2019 e ora un bestseller dal successo straordinario, tradotto in oltre venticinque lingue del mondo – è approdato ufficialmente sulla piattaforma Netflix. E complice una regia che è un’opera di traduzione per immagini minimale, evocativa e intensa, nonché un cast di interpreti a dir poco straordinari, Il Treno dei Bambini diventa ora anche il film al numero uno della top dei film più visti del paese. Quell’Italia che nel lungometraggio si rivela tra Napoli, i Quartieri Spagnoli e le campagne della provincia di Modena al cuore del dopoguerra: parentesi della nostra Storia che per molti versi, come e più dei fatti della Seconda Guerra Mondiale rappresenta ancora oggi una ferita aperta. Ma anche un libro aperto, carico di foto, testimonianze, ricordi, storie individuali e collettive, tramandate dai contesti pubblici come nelle case private in forma di aneddoti, avventure anche tragiche, a volte perfino strazianti, che pure meritano di essere amorevolmente conservate, celebrate di generazione in generazione. Da questa intuizione nasceva il terzo romanzo di Viola Ardone: immaginare uno tra i settantamila bambini napoletani accolti negli anni della miseria più nera dalle famiglie modenesi su iniziativa dell’UDI (Unione Donne Italiane) e del PCI (Partito Comunista Italiano). E raccontare quel settenne senza scarpe, strappato a una vita di stenti e piccoli furti, nel legame con le sue due mamme: quella che lo allontana perché non muoia come suo fratello, e quella che si trova ad accoglierlo praticamente per caso, senza sentirsi all’inizio minimamente all’altezza.

La regista Cristina Comencini sceglie di adattare per il piccolo e il grande schermo la parabola de Il Treno dei Bambini secondo la più autentica lezione del Neorealismo italiano, per come era stato teorizzato da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica. La Storia collettiva del secondo dopoguerra – prima della ricostruzione, quando le macerie e la violenza inaudita dei bombardamenti e delle violenze nazi-fasciste restano un trauma troppo vivo, troppo reale e forte, forse impossibile da elaborare quando si deve lottare quotidianamente, giorno dopo giorno per la mera sopravvivenza – si rivela così attraverso la prospettiva individuale del singolo, in particolare del più debole, secondo quello che Zavattini immaginava come Teoria del Pedinamento. Un vero e proprio corpo a corpo con i personaggi che attraverso i gesti minimi, quotidiani, compresi quelli apparentemente insignificanti, disvelano una nuova idea di Realismo e così la verità della loro esistenza. E se il film si apre e si chiude con la stessa dedica, “a tutti i bambini e le mamme di tutte le guerre”, dalla prima sequenza scopriamo che il protagonista de Il Treno dei Bambini oggi è un uomo adulto, un violinista di fama internazionale interpretato da Stefano Accorsi.

Attenzione! Il seguito contiene SPOILER su Il Treno dei Bambini 

Prima di entrare in scena per un concerto, ora che può perfino scegliere tra differenti paia di eleganti calzature, riceve una chiamata e scopre che sua madre è morta. Ma quando saluta, prima di riagganciare, saluta sua mamma. Chi sono, e chi erano allora queste due madri di Amerigo Speranza? Dal primo flashback iniziamo a vedere un bambino esile, scarnificato dalla fame, poco vestito e dedito a osservare le scarpe indossate dalle persone, perché naturalmente vorrebbe averne un paio. Uno scugnizzo, una di quelle creatur’e miez a via costretto a industriarsi recuperando e vendendo le pezze, gli scampoli di stoffa, in una Napoli che somiglia straordinariamente a quella dei capolavori di Roberto Rossellini e  Vittorio De Sica, in particolare Paisà e il primo episodio di Ieri, Oggi e Domani, girato proprio nei Quartieri Spagnoli. Ma il film di Cristina Comencini sta conquistando e commuovendo l’Italia intera non solo per l’eleganza sottile della regia e delle memorie cinematografiche, che una volta giunti nel modenese ci rimandano subito a Novecento di Bernardo Bertolucci. Il cuore del film è nel suo straordinario piccolo protagonista, Christian Cervone, e in quelle due splendide attrici che sono Serena Rossi, ovvero Antonietta Speranza, e Barbara Ronchi, interprete di Derna, ex partigiana ora militante del PCI. Entrambe donne sole, nubili, zitelle, che pure hanno poco in comune, se non il legame con quel bambino, che per la seconda non doveva essere che un affido temporaneo,  perché potesse avere per qualche tempo la sicurezza di una casa, vestiti, istruzione e pasti caldi.

Se le scarpe hanno già assunto un alto valore simbolico, sarà poi l’abbraccio delle due diverse madri a rappresentare uno dei temi e le immagini più forti del film ispirato alla vera storia dei cosiddetti Treni della Felicità organizzati dall’UDI e dal PCI, per portare i bambini più poveri e indigenti da Sud a Nord (senza escludere nessuno, neanche i figli delle famiglie compromesse col Fascismo). Derna inizialmente non sa neanche come si abbraccia un bambino, che pure nel caso di Amerigo ha giù l’intelligenza e la sensibilità di un uomo, dotato del garbo necessario per comprendere il suo dolore, quando le chiede di parlare del suo grande amore perduto, il partigiano detto Lupo. Sarà il bambino a insegnarle di nuovo cosa sia un abbraccio. E quando Amerigo si vede costretto a tornare a Napoli, comprensibilmente non avrà voglia di lasciare tutto quello che rappresentava quella serenità, quel benessere così faticosamente conquistato. Riuscirà a fuggire, a tornare indietro, non riuscendo a perdonare a sua madre di aver impegnato al Monte di Pietà il suo violino, costruito dallo zio acquisito con le sue mani. Eppure, nel finale ritroviamo un altro abbraccio davvero in grado di spezzarci il cuore. Quando Amerigo adulto torna da solo in una quella piccola, misera stamberga ritrova proprio il violino. Antonietta, la madre che l’ha lasciato libero di andare, che non è andata a riprenderlo ma l’ha lasciato vivere una vita migliore, non si sa come quel violino l’aveva riscattato. E dell’ultimo flashback difficilmente riusciremo a dimenticare l’abbraccio, il volto e il canto di Serena Rossi: interprete di una donna che evidentemente non ha da offrire a suo figlio altro che il suo corpo, la sua voce melodiosa che intona una canzone nella notte, per scacciare via gli incubi, i ricordi, la miseria e il terrore.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre scene preferite del film Netflix? Diteci la vostra, come sempre, nei commenti.

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