Siamo nei primi giorni di maggio, nel 1977. Steven Spielberg e George Lucas si sono presi qualche giorno di vacanza alle Hawaii, per riposarsi delle fatiche del set e rilassarsi in vista delle tensioni che presto li travolgeranno. I due sono amici da anni e hanno una visione abbastanza vicina di cosa sia il cinema e di come dovrebbe funzionare Hollywood, ma si trovano in due momenti molto diversi delle loro carriere: Spielberg è da due anni in cima al mondo, da quando cioè il suo Squalo ha divorato ogni record di incassi precedente, dandogli la possibilità di girare il film dei suoi sogni, Incontri ravvicinati del terzo tipo, che però è un bel salto nel buio per il regista di Cincinnati. Un salto nel buio molto, molto costoso per gli standard dell’epoca. Lucas, dal canto suo, è sull’orlo del precipizio, perché nonostante abbia avuto anche lui un enorme successo con American Graffiti, si è poi impelagato con la produzione e la regia di un film strano, che nessuno sembra capire e che, quando uscirà, sarà un probabile flop che gli costerà la carriera e la casa, visto che l’ha dovuta ipotecare per trovare i fondi necessari per terminarlo: si chiama Star Wars.
I due movie brats però sono giovani e, per questo, giustamente incoscienti. Così, tra un daiquiri e un bagno nelle acque dell’Oceano Pacifico Settentrionale, invece di farsi mille paranoie, sognano i film che faranno in futuro. Spielberg ha un desiderio: “fare un film come quelli di James Bond”. Lucas ha un’idea: “fare un film migliore di quelli di James Bond”. E così, mescolando questo spunto alle passioni giovanili per i serial cinematografici di Doc Savage, i romanzi pulp e avventurosi di Allan Quatermain e i racconti a tema fantastico-speculativo di Arthur Conan Doyle, ecco formarsi l’idea per I predatori dell’arca perduta, che poi finirà nelle mani di Lawrence Kasdan che la trasformerà in uno script straordinario. Ma tutto parte da Bond, e lo si capisce bene sin dall’inizio del film, con quel prologo in medias res, apparentemente slegato dalla vicenda principale del film ma che, invece, introduce non solo tutto il tono della storia ma anche degli importanti elementi narrativi. La scena si apre con il simbolo della Paramount, la misteriosa First Majestic Mountain che si trasforma in una vetta del Perù (1).
Dalla quinta entra un uomo, inquadrato in piano americano e di spalle. La prima cosa che vediamo di lui è che porta una frusta al fianco. Quando si allontana, notiamo anche la giacca di pelle e il cappello Fedora (2).
L’uomo guarda la montagna e poi procede, seguito da alcuni sui compagni di avventura. Il primo volto che vediamo è quello di Alfred Molina, che interpreta Satipo, un guida ben poco raccomandabile, come scopriremo poi (3).
I titoli di testa cominciano a scorrere mentre il gruppo avanza nella foresta, incontrando sul suo cammino vari segni inquietanti (4).
Il volto del protagonista continua a non venire inquadrato. Poi arriviamo a una radura con un piccolo stagno e la sparuta carovana di uomini si ferma per controllare una mappa divisa in più parti. Sgualcita e antica. Il simbolo di un mistero e di una lunga ricerca che possiamo solo intuire ma che non ci verrà raccontata (5).
Uno degli uomini fa una mossa e prova a prendere la pistola (6).
Il misterioso protagonista inclina la testa e poi, con un gesto fulmineo, porta alla mano la frusta che tiene al fianco, la srotola e la fa guizzare nell’aria mentre la colonna sonora che, fino a qui, è stata misteriosa e arcana, si trasforma in una fanfara avventurosa. SNAP! La frusta colpisce (7).
La pistola dell’assalitore cade nell’acqua e il malvagio è messo in fuga. Ora torniamo sul protagonista che fa un passo in avanti, uscendo dall’ombra. Possiamo finalmente vederne il volto: è Indiana Jones (8).
Non possiamo saperlo, in verità, perché nessuno ce l’ho ha ancora presentato, ma uno con una faccia del genere non può essere altri che Indiana Jones. Il resto, come si suol dire, è storia: Indiana Jones, seguito dall’infido Satipo, entrerà nel tempio perduto (non prima di aver misteriosamente riempito un sacchetto di terra), affronterà una serie di trappole da cui si salverà grazie alle sue conoscenze, allo studio e all’utilizzo della sua frusta, fino a ritrovarsi davanti all’idolo d’oro. Fino a quel momento il nostro eroe sarà praticamente infallibile, un protagonista vecchia scuola, che parla poco, ha sempre la situazione sotto controllo e non sbaglia mai. Poi Indy sostituirà l’idolo con il sacchetto di terra, Harrison Ford farà la sua classica smorfia da smargiasso, che si tramuterà in un lampo in una comica espressione di allibito stupore quando si renderà conto del suo tragico errore, e il personaggio, e il film con lui, definirà il suo stile unico fatto sì di avventura ma anche di ironia e divertimento. La rocambolesca e fortunosa fuga dalla palla gigante, l’arrivo dello spregevole Belloq accompagnato dagli Hovitos, la corsa verso il biplano sotto la pioggia di frecce avvelenate, il decollo, Reggie il serpente e le note di John Williams, faranno il resto, definendo in poco meno di dodici minuti di film, tutto lo stile di una pellicola che diventerà immediatamente un paradigma per il cinema avventuroso moderno, scalzando proprio quel James Bond che ne è stato il modello iniziale. In quei dodici minuti, Lucas, Kasdan, Spielberg, Slocombe (il direttore della fotografia), Kahn (il montatore) e John Williams, definiranno e codificheranno un linguaggio che, ancora oggi, è moneta corrente (e sonante) per l’intrattenimento. Dodici minuti di straordinaria scrittura, regia, fotografia, montaggio e musica, per la costruzione di un mito che si perpetua da oltre quarant’anni. Ci sono registi che, a fronte di ore e ore di girato, non riusciranno mai a fare quello che questi sei hanno fatto in poco più di settecentoventi secondi.
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