Diego Abatantuono, protagonista della commedia Belli di papà (al cinema dal 29 ottobre), ci racconta il suo personaggio, l’esperienza sul set in un luglio particolarmente rovente e in compagnia di un cast giovane, non mancando di dirci la sua rispetto a come è cambiata la gavetta dai tempi del Derby alla frenesia del presente, tra i fenomeni della televisione, di Internet e di YouTube.
Best Movie: Di cosa parla Belli di papà e come puoi descriverci il tuo personaggio?
Diego Abatantuono: «La trama del film ha la precisa finalità di raccontare il rapporto genitori-figli da entrambi i punti di vista. Protagonista è una famiglia benestante con un padre molto ricco che si è fatto da solo, e che vede sempre nei tre figli lo specchio di quello che creato con i suoi insegnamenti (che è un po’ una costante dei genitori in generale). Però la prospettiva delle due parti è sempre molto diversa e i metodi di correzione di un genitore sono complessi, anche perchè frutto degli eventi che ci circondano. Come ad esempio il fatto che lui sia vedovo e quindi i tre ragazzi sono particolarmente viziati e lasciati allo sbando, da ciò sgorga la comicità: abbiamo dei rimbambiti veri che si confrontano con un padre convinto di essere impeccabile. In realtà lui li ha solo viziati, ma resosi conto dell’errore, cerca un escamotage per correggerli mettendoli a confronto con la realtà. Infatti, nella seconda parte della pellicola, tutto è molto faticoso per loro, una vera salita. E questo contrasto con la prima parte, più strabordante, fa in modo che si possa trovare un equilibrio: nella famiglia migliorano tutti, sia il padre che i figli, riuscendo a imparare qualcosa l’uno dagli altri. Ed è proprio questa la morale: si può sempre imparare e gli errori possono essere sfruttati per migliorarsi. Nel film si mette in luce anche il contrasto tra due generazioni, tra due modi di vivere molto diversi, tra ceti sociali e tra due realtà molto differenti come Milano e la Puglia.
Volendo fare un paragone nobile, viene in mente un titolo come Miseria e nobiltà, film comico di altissimo livello con grandi valori.
Il mio personaggio è appunto questo padre, un self made man che ha ancora un vago legame con la sua terra d’origine – anche se è milanese a tutti gli effetti – e che a un certo punto si rende conto che la situazione gli sta scappando di mano e deve correre ai ripari. Tra l’altro, poi, non rinuncia alle sue comodità e ai suoi privilegi, fatto che accentua i contrasti con i figli. Belli di papà è quindi divertente ma anche emotivamente godibile, perchè si avverte questo cambiamento, questa trasformazione coinvolgente e resa bene anche grazie al cast scelto da Chiesa: ho avuto la fortuna di collaborare con ragazzi molto bravi».
BM: A proposito, come ti sei trovato a lavorare con un’esordiente davanti alla mdp come Francesco Facchinetti?
«Devo ammettere che mi ha piacevolmente stupito, durante le riprese ma soprattutto con il risultato finale. L’ho addirittura sottovalutato, nel senso che già mi sembrava buono sul set, poi riguardandolo nel film ultimato l’ho trovato ottimo. Funziona molto bene nella sua parte, e ha dimostrato un’originalità particolare nel trasmettere la follia del suo personaggio».
BM: Hai improvvisato molto durante le riprese?
DA: «Beh si, come faccio di solito, se posso. Ho cercato di dare una mia impronta, sempre mantenendo una struttura già ben equilibrata, mentre altre soluzioni le abbiamo affinate strada facendo, o aggiungendo magari qualche dettaglio alle scene sentendo che potevamo dargli una marcia in più o maggior ritmo, il tutto sempre in grande armonia con il regista. Questo lo puoi fare soprattutto se hai a disposizione un cast duttile come quello con cui ho lavorato per questa pellicola. Matilde Gioli è davvero una grandissima attrice, un vero talento, e Andrea Pisani è stato altrettanto bravo. Antonio Catania poi è una garanzia, è come giocare con Rivera a pallone: difficile che faccia un passaggio sbagliato. Abbiamo fatto un ottimo lavoro, se escludiamo la fatica e il clima terrificante: abbiamo girato in Puglia nel mese di luglio che è stato uno dei più caldi della storia. Avetrana si è rivelata un posto splendido, piena di gente molto accogliente e gentile, però con un caldo della Madonna. Con l’aggravante di essere vicini a un mare bellissimo che però potevamo soltanto guardare a distanza: quando gli altri si buttavano in acqua, noi potevamo giusto buttarci per terra».
BM: Tornando alla tematica trattata nel film, nella tua vita privata come hai gestito il tuo rapporto con i figli e cosa hai fatto per evitare che diventassero dei potenziali “bamboccioni”?
DA: «”Bamboccioni” è la definizione che mi fa più ca**re in assoluto, è un termine che non userei mai per definire una persona. Perchè i bamboccioni non esistono, esistono le persone con le loro storie, e tutto ciò che capita nella vita è frutto di altre cause concomitanti, quindi non bisogna mai generalizzare. Io ho avuto una vita meravigliosa perchè i miei genitori e i genitori della mia generazione hanno lavorato tanto per poterci garantire un’epoca senza guerre e difficoltà: mio nonno ha attraversato due guerre, mio padre una, io che sono nato nel 1955 non ho fatto un c***o, anzi, ho avuto anche la fortuna di fare un bel lavoro. Quindi, tornando alla domanda, il rapporto con i miei figli è molto simile a quello del film dal punto di vista generazionale, perchè ho una figlia di 30 anni e due maschi – un po’ come nella storia di Belli di papà -, solo che io sono un padre molto meno ricco di quello che interpreto e quindi non avrei potuto viziarli così tanto. Inoltre, nonostante un lavoro che spesso mi porta ad essere lontano da casa, ho cercato di essere sempre presente, quindi, anche grazie alle mie mogli e alle mamme dei miei figli, questi sono totalmente diversi da quelli della pellicola».
BM: Andrea Pisani, che in Belli di papà interpreta uno dei tuoi figli, è un giovane comico che approda al cinema dopo il successo del duo comico Panpers a Colorado. Oggi, rispetto all’epoca del tuo esordio al Derby di Milano, è più facile fare il mestiere dell’attore comico o è più complesso emergere e avere visibilità?
DA: «Difficile generalizzare, perchè anche qui i casi del destino sono determinanti. Io mi sono trovato a vivere al Derby perchè era dei miei zii, mia madre ci lavorava, ci sono cresciuto e quindi è stata un’occasione unica. Certo, avere un po’ di talento – condizionato dall’ambiente – è stato utile: se fossi vissuto sui Fai della Paganella, magari, sarebbe stato un pelo più complicato (ride, ndr). La differenza tra le epoche di sicuro esiste: una volta c’era una sorta di meritocrazia, nel senso che per partire dovevi trovare un posto dove esibirti, e il Derby per tanti era proprio questo, un punto di partenza che dava l’opportunità di provare a fare il comico. Poi se funzionavi nel cabaret iniziavi a girare, a fare le serate, e poi potevi accedere alla televisione, e alla fine approdare al cinema. Ogni cosa era un passaggio meritato sul campo. Adesso, invece, purtroppo la Tv è già il banco di prova, perchè sono talmente tanti i programmi che propongono nuovi comici sotto tutti i punti di vista, che l’apprendistato sul campo, di fatto, è tolto di mezzo. Quindi, paradossalmente, è più facile diventare famosi ma è altrettanto difficile restarlo. Anche grazie a fenomeni come Internet e YouTube oggi è più facile essere presenti, ma è più difficile durare e resistere. Ora è tutto più frenetico, però è ancora il talento a fare la differenza, esattamente come nel caso di Andrea. Lui ha avuto un’opportunità come tanti altri, ma quando fai un film entri in un altro mondo e ci vuole un altro tipo di talento. Se hai credibilità recitativa, a quel punto il bagaglio del comico è determinante, perchè è molto più difficile far ridere che far piangere. Per dire, è più complicato fare il ras della fossa in Eccezzziunale… veramente che il Ponchia di Marrakech Express, piuttosto che Mediterraneo. Questa duttilità Pisani ce l’ha, è credibile nei momenti comici come in quelli drammatici, ed è un connubio che lo porterà lontano».
BM: Stai già lavorando a qualche nuovo film?
DA: «In questa fase della mia carriera sto scegliendo i titoli che mi piacciono di più e più adatti al mio personaggio. Avendo ormai la sindrome “Gianni Morandi” – nel senso che piaccio ai bambini, ai ragazzi e al pubblico di mezza età – devo scegliere di impegnarmi in progetti che possano accontentare un po’ tutti. Quindi non mollerò quello che ho fatto finora, soprattutto le trasmissioni sportive, e al contempo sto preparando un paio di film. La differenza è che prima ricevevo proposte e le sceglievo basandomi sul mio gusto, adesso devo valutare le mie decisioni affinché siano coerenti con le mie caratteristiche d’età e con le scelte artistiche precedenti, evitando magari di ripetermi».
BM: Quali sono gli ultimi film che hai visto e che ti sono piaciuti particolarmente?
DA: «Ecco una domanda a cui è sempre difficile rispondere: se cito un americano sembra che quelli italiani non li guardo, invece se cito un italiano, quelli che dimentico si offendono. Per “dribblare” il problema posso citare Anime Nere, che ho visto di recente e che mi è piaciuto molto, l’ho trovato particolare e originale per essere una produzione italiana. In realtà vedo moltissimi film e quando posso frequento anche il cinema; ecco, per evitare l’effetto selfie non ci vado la domenica pomeriggio e scelgo momenti meno affollati. È lo stesso motivo per cui non vado più allo stadio, perchè mi tocca fare 5 mila foto, mi arrivano 10 mila pacche sulle spalle e poi le solite frasi che un giorno raccoglierò in un libro: la più gettonata? “Lei mi è molto simpatico, ma ha un difetto…”. So già come finisce: quello o è interista o romanista, lo capisci dall’accento, a meno che non sia juventino, loro sono tifosi più internazionali, difficile riconoscerli (ride).
BM: Un pronostico sul tuo Milan? Come lo vedi quest’anno?
DA: «Affare molto complesso. Il nuovo allenatore mi piaceva quando è stato ingaggiato e continua a piacermi per la sua sincerità. Il problema però è proprio quello che dice: è troppo onesto e ha già dichiarato che questo non è un grande Milan (concetto su cui concordo). Da quando andavo a Milanello invitato da Sacchi e prima ancora quando ero vicino di casa di Rivera, ma anche al bar sottocasa, la prima cosa che ho imparato sul calcio è che le partite e i campionati si vincono a centro campo. E purtroppo i grandi del centro campo sono i numeri 10: noi che per 20 anni abbiamo avuto i più grandi del mondo, ormai da 5 o 6 anni non abbiamo più nemmeno un regista, nessuno che sappia imbastire un’operazione “cinematografica” o perlomeno “teatrale”, che sappia dare un senso all’azione o che sia perlomeno capace di mettere in piedi qualcosa. Se manca il regista la soluzione dev’essere un’altra e a questo punto passo la palla al nostro mister, che ahimè dovrà inventarsi qualcosa di diverso».
L’intervista è pubblicata anche su Best Movie di ottobre, in edicola dal 26 settembre
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