Incontriamo Johnnie To – a Udine per presentare la sua commedia romantica Romancing in Thin Air (leggi l’approfondimento) – nella tarda mattinata di una domenica primaverile solo a rigor di calendario, gonfia d’acqua e colorata dagli ombrelli. Indossa una giacca di pelle bordeaux stinta e trapuntata, che lo fa sembrare quasi una rock star, nonostante la camicia – intarsiata di riflessi rossi e verdi – si gonfi un pò sulla pancia, dandogli un’aria più domestica. Gli occhi sono vispi e mobili, e si agitano curiosi dietro le lenti rettangolari e scontornate degli occhiali. Tra di noi c’è la traduttrice perché, come spesso accade con gli autori d’oriente, To non ama le interviste in inglese (che pure capisce benissimo), e preferisce esprimersi in cantonese. Avendo a disposizione il più importante autore di polizieschi e noir dell’estremo oriente, l’uomo che a partire dagli anni ’90, con la sua casa di produzione Milkyway, ha fatto la storia del cinema di genere di Hong Kong, ci soffermiamo a parlare del suo modo di intendere la settima arte, tra autonomia autoriale, industria e riferimenti occidentali.
Se qualcuno definisce il suo cinema pop, nel senso di popolare, è una definizione che apprezza?
Popolare è un aggettivo che non mi dispiace, non è un difetto, ma non credo che il mio cinema si possa definire pop. Anzi, credo che sia considerato così più qui (intende al Far East, e in generale in Europa, NdR) che non a Hong Kong.
Quanto è importante girare pensando al pubblico e quanto è importante girare pensando alla propria poetica, al proprio stile?
Il paradosso è che se dicessi che non penso al pubblico, in quanto regista non sarei un buon professionista. Ma la verità è che comunque non riesco a fare qualcosa in cui non credo, che non mi viene da dentro, e quindi il pensiero di quel che vorrebbe il pubblico, o il produttore, non mi condiziona mai.
C’è qualche differenza tra quando gira una commedia, come Romancing in Thin Air (il film che presenta qui a Udine, NdR) e quando gira un thriller?
Forse questo mi permette di rispondere meglio all’altra domanda: le commedie sono prodotti commerciali, i thriller sono “i film di Johnnie To”.
E come cambia l’approccio al film?
Quando giro un thriller, non c’è copione che tenga…
Parlando di cinema poliziesco, e più in generale di thriller: secondo lei le distanze tra il cinema d’oriente, europeo e americano stanno aumentando o stanno diminuendo?
Sicuramente stanno diminuendo. In una certa misura il cinema di Hong Kong è sempre stato influenzato da quello americano, si cercava di fare qualcosa di simile, ma il problema era soprattutto che tra i due paesi esisteva una distanza economica che si rifletteva sulle condizioni di vita prima di tutto, e poi di conseguenza anche sul cinema. Fino a qualche anno fa anche nei grandi centri urbani si viveva con i topi per le strade, solo per fare un esempio. Ora le cose vanno meglio, e i mezzi di comunicazione globale, internet soprattutto, hanno fatto il resto.
L’anno scorso lei era nella giuria di Cannes che ha premiato Drive di Nicolas Winding Refn. Considerata la miscela di azione e romanticismo del film, ha ritrovato qualcosa di sé in quel cinema?
Me l’hanno detto in tanti, sono tutti convinti che io abbia spinto perché quel film vincesse. E in effetti è un noir, è il genere che mi piace, quindi l’ho visto con piacere. Ma non era tra i miei preferiti. È un film troppo poco originale. Si ispira a Peckinpah, e ai film con Steve McQueen e, ragazzi (gli si illuminano gli occhi e quasi si alza dalla sedia per l’entusiasmo, NdR), è impossibile essere all’altezza di quei film.
Quindi quali erano i suoi film preferiti durante il festival?
The Tree of Life più di tutti. E poi Il ragazzo con la bicicletta. Bellissimi.
Quali sono i suoi prossimi progetti? Tornerà al thriller?
Non posso dirti molto, ma sto lavorando a due film in questo momento.
Nemmeno il genere?
Facciamo così, ti dico i titoli: si chiamano Drug War e Blind Detective.
Beh, immagino che non siano commedie allora…
Ride soddisfatto e ci salutiamo.
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