Jonas Carpignano: «A Ciambra, gli zingari e Martin Scorsese»
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Jonas Carpignano: «A Ciambra, gli zingari e Martin Scorsese»

Con Mediterranea e A Ciambra (che quest’anno al Festival di Cannes ha vinto un premio importante), il regista italoamericano ha dimostrato di essere tra gli autori più interessanti in circolazione, e anche Scorsese si è accorto di lui. Noi lo abbiamo intervistato

Jonas Carpignano: «A Ciambra, gli zingari e Martin Scorsese»

Con Mediterranea e A Ciambra (che quest’anno al Festival di Cannes ha vinto un premio importante), il regista italoamericano ha dimostrato di essere tra gli autori più interessanti in circolazione, e anche Scorsese si è accorto di lui. Noi lo abbiamo intervistato

A Ciambra Oscar 2018

La Ciambra – si legge sui giornali – è un po’ il Bronx di Gioia Tauro, un quartiere degradato che da anni è diventato la casa inviolabile di una comunità rom; neanche la polizia, spesso, riesce a entravi. Lì vive Pio: un 14enne sveglio ed inquieto che, come tutti i bambini di quel mondo, è cresciuto in fretta, impaziente di strapparsi di dosso l’inutile e accessoria innocenza della sua età, di macchiare quanto prima una purezza che, comunque, è destinata a creparsi.
Tra un furto e l’altro, diviso tra l’attaccamento alla propria famiglia e l’amicizia con un immigrato africano, Pio vaga tra i paesaggi stuprati della piana calabrese e, con il mare sempre lontano e indifferente sullo sfondo, cerca un proprio posto nel mondo.

Il giovane regista Jonas Carpignano (classe 1984) non giudica e non celebra Pio – così come non giudica e non celebra il suo “branco” – ma costruisce un racconto di formazione di una verità potente. Con una precisione e una sincerità di sguardo che riecheggia il cinema di Rossellini e Alice Rohrwacher nel fotografare, rispettivamente, la giovinezza e il paesaggio, Carpignano ha firmato uno dei film italiani più interessanti di questa stagione, una variazione preziosa di quel cinema del reale sospeso tra documentario e finzione che, sulla scia di Francesco Rosi, sta finalmente guadagnandosi un proprio spazio nelle sale italiane. Un film, A Ciambra, che è stato anche premiato dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani per il “talento viscerale, crudo e generoso” del suo autore. Un film, come lo ha definito Martin Scorsese – qui produttore –, “bello e commovente che entra così intimamente nel mondo dei suoi personaggi che hai la sensazione di vivere con loro”.

Lo ripetiamo: c’è una sincerità di sguardo rara in A Ciambra. Non siamo a uno zoo-safari che ti fa guardare da lontano degli animali selvaggi e pericolosi; Carpignano ci spinge dentro il mondo della Ciambra immergendoci nel fango di quel luogo così difficilmente accessibile dall’esterno, e mai visto da così vicino. Un mondo che il regista ci mostra in tutte le sue contraddizioni e dove è riuscito ad accedere solo grazie a un lavoro di documentazione durato anni, non settimane.

Dopo la presentazione alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes dove si è aggiudicato un premio importante (il Label di Europa Cinemas), A Ciambra esce nei cinema italiani il 31 agosto. Per l’occasione abbiamo raggiunto al telefono il regista Jonas Carpignano che, in questa intervista-fiume, ci ha raccontato, con passione e semplicità, della lavorazione del film.

In una delle prime scene si vede un bambino di neanche cinque anni che fuma una sigaretta. E lo fa con una disinvoltura inquietante. È un’immagine forte, che ci dice senza mezzi termini che i rom della Ciambra vogliono crescere molto in fretta…

«Be’ sì. Comunque Cocchino di anni ne ha tre, non cinque. Alla Ciambra si danno le sigarette ai bambini invece del ciuccio (ride, ndr). Scherzi a parte, la sua disinvoltura è reale: anche nella vita di tutti i giorni, lui si comporta così; la macchina da presa era una presenza invisibile, anche perché ho iniziato a fare delle riprese a casa sua prima ancora che lui nascesse».

Com’è stato, invece, il primo incontro con Pio Amato, il protagonista?

«Se devo essere sincero io non lo ricordo con precisione. Lui sostiene di avermi visto la prima volta quando sono andato alla Ciambra a chiedere il riscatto per la mia auto».

Scusa?

«Sì, la mia Panda era stata rubata, e a Gioia Tauro quando succede questa cosa devi andare dagli zingari che, se ti vogliono bene, ti fanno riavere la macchina a un prezzo ragionevole, mentre, se ti vogliono male, smontano la tua auto e tu non la vedi più. A me fortunatamente, è andata bene… Fatto sta che, lì per lì, ero davvero troppo preoccupato di riavere la mia macchina per accorgermi di lui. Su quella Panda avevo tutta l’attrezzatura (videocamere, microfoni, eccetera) per il cortometraggio che stavamo girando all’epoca (A Chjána): era il mio primo lavoro e non poteva finire così!».

E allora, da parte tua, quale è stato il primo ricordo di Pio?

«Mi ricordo di aver incontrato Pio circa un mese dopo: volevo girare qualcosa alla Ciambra, stavo cercando di conoscere l’ambiente e lui mi stava sempre appiccicato addosso. Mi seguiva dappertutto. Mi ricordo in particolare di una sera: io ero con un gruppo di ragazzi della Ciambra, era ormai quasi mezzanotte, e lui mi chiede una sigaretta. All’epoca aveva 10 anni, e questa cosa mi aveva colpito subito non tanto per via della sigaretta – sapevo già tutti i bambini della Ciambra fumavano – ma per la sua attrazione nei miei confronti. Per lui rappresentavo un mondo che non conosceva ed era curioso. Insomma eravamo entrambi curiosi gli uni degli altri».

 

Quando hai proposta alla famiglia Amato di fare un film su di loro, quanto erano scettici?

«Molto. Anzi, all’inizio sembrava proprio impossibile realizzarlo. Nel 2013 avevo già girato un cortometraggio con Pio e suo fratello, ma lì eravamo solo noi tre; ora si trattava di coinvolgere tutta la famiglia… In questo senso Pio è stato fondamentale: ha raccontato a tutti loro che ero un tipo a posto, uno di cui si potevano fidare, uno che fa cinema di mestiere. Soprattutto, gli ha fatto capire che non li volevo usare, che non ero un tizio da Striscia la notizia che voleva cavalcare l’onda del momento; semplicemente ero una persona che voleva conoscerli meglio».

E tu, prima, come avevi fatto a guadagnarti la fiducia di Pio?

«L’ho frequentato, ho creato un rapporto con lui, ci ho lavorato insieme. Dopo il corto di cui ti ho parlato prima, l’ho coinvolto anche in un mio altro lavoro, Mediterranea. Tra una cosa e l’altra abbiamo passato insieme tre anni, e niente, ci siamo conosciuti bene».

Solo quando hai ottenuto la fiducia di tutti, il film è potuto partire.

«Sì, li avevo convinti, anche se in molti, tra loro, non credevano che poi, alla fine, il film si sarebbe fatto davvero. Quando poi la produzione è partita, la fatica è stata convincerli a venire sul set ogni giorno, perché se all’inizio tutti ti dicono “sì, sì, sì, lo faccio!”, poi, quando si inizia a lavorare seriamente, capisci chi si vuole impegnare e chi no. Ti faccio un esempio anche abbastanza divertente: Cosimo, il fratello grande di Pio, è in realtà interpretato da due gemelli. Il primo giorno a uno dei due dico di passare dal reparto costumi: il problema è che “vestiti” in calabrese si dice “roba”, così quando ha sentito la parola “costumi” ha avuto paura di ritrovarsi in un film in costume, di quelli con parrucche dell’Ottocento, ed è scappato! Sparito. È tornato dopo tre giorni».

In un film come questo, così in bilico tra documentario e finzione, con attori non professionisti, quanto sei riuscito a seguire uno script già scritto e quanto spazio ha avuto l’improvvisazione? Pio e tutti gli altri dovevano recitare se stessi ma al tempo stesso dovevano seguire un copione già scritto. Ci puoi raccontare come avete lavorato sul set?

«Diciamo che l’improvvisazione è rientrata nel lato documentaristico, di preparazione, di scrittura della sceneggiatura. Sul set ci siamo attenuti molto allo script. Ho seguito un metodo di lavorazione particolare: quasi tutti i rom sono analfabeti, dunque non possono leggere e memorizzare prima le battute. Ogni giorno, prima di girare, dovevo allora spiegargli nel dettaglio la scena, raccontargliela, fargli imparare i dialoghi. Nei mesi precedenti, avevo fatto, un po’ a loro insaputa, delle prove non ufficiali».

In che senso?

«Ti faccio un esempio. Il racconto di Iolanda, a cena, su quel marocchino visto in ospedale, lei me lo aveva fatto veramente anni fa: io l’ho preso e l’ho inserito in sceneggiatura perché volevo mostrare il punto di vista dei rom sugli immigrati. Per farglielo recitare ho agito così: dato che vado a mangiare da loro almeno 3-4 volte a settimana, a tavola, le chiedevo di raccontarmi ancora quella storia. Era un po’ come se stessimo facendo le prove, solo che lei non lo sapeva. In questo modo, quando abbiamo girato la scena, lei era pronta. Diciamo che è stato così per gran parte del film: al momento del ciak sapevo già cosa i miei attori erano in grado o non erano in grado di fare. Insomma, tutto è stato ben calcolato in anticipo e allora sì, in questo senso, abbiamo seguito in maniera precisa la sceneggiatura. È un metodo interessante, ma che richiede un sacco di tempo visto che ogni giorno dovevo spiegare ai miei attori assolutamente tutto di ogni singola scena: in totale, abbiamo girato 91 giorni. Questo anche perché loro non ce la fanno a stare sul set per più di tre, quattro ore».    

Con 91 giorni sul set, avrai raccolto moltissime ore di girato. Immagino che il montaggio sia stato faticoso…

«In effetti abbiamo raccolto tantissime cose e girato moltissimo, anche perché mi sembrava uno spreco stare lì dentro la Ciambra e non girare. C’è da dire però che certi giorni accendevo la cinepresa ma sapevo benissimo che quello che avrei girato non sarebbe finito nel montaggio finale. Alcuni giorni, infatti, Pio mi diceva che non aveva voglia di girare e allora io lo seguivo mentre lui faceva le sue cose e magari catturavo qualche momento, più che altro perché volevo che lui non perdesse il filo e che continuasse a sentire la presenza della troupe; era un altro modo per continuare a fare delle prove».

Alla fine qual è stata la scena più dolorosa da tagliare?

«Ancora piango per una breve sequenza che non ho potuto inserire… Pio e Cocchino dormono spesso insieme e quando Pio lo mette a letto il piccolo gli dice “curcati!” e poi gli tira uno schiaffo. Eh sì, insomma, cerca di farlo addormentare prendendolo a schiaffi! Ma alla fine, poi, si abbracciano. Ed è un momento molto divertente ed emozionate, quasi mi commuovo a pensarci ora».

Un’altra scena, anche questa divertente ed emozionate insieme, che invece è rientrata nel montaggio finale, è quella in cui Pio si ritrova a guardare una partita di Coppa Africa insieme a un gruppo di immigrati.

«È una sequenza nata da alcun episodi che mi sono realmente accaduti e che poi ho un po’ rivisitato e assemblato. Una delle prime esperienze che ho avuto giù a Gioia con la comunità africana è stata proprio nella tendopoli che vediamo nel film, in una situazione simile: con il mio coinquilino Koudous Seihon (che è anche attore in quasi tutte le opere di Carpignano, ndr) eravamo andati a vedere una partita molto importante nel loro villaggio e, una volta là, ci eravamo ritrovati con altre 40-50 persone a guardare il match su computer piccolissimo. Io e il mio amico avevamo allora deciso di tornare a casa, prendere il nostro proiettore e il nostro gruppo elettrogeno e tornare lì nella gioia di tutti. Un’altra volta avevo portato Pio lì e Koudous lo aveva presentato a tutti i ragazzi che lo avevano accolto in un modo simile a quello che si vede nel film».

Perché alla fine hai deciso di fare un film di finzione e non un documentario?

«Come regista sentivo il bisogno non solo di far vedere un luogo ma proprio di viverlo. Volevo vivere nella Ciambra, e soprattutto volevo dire la mia, far vedere il mio punto di vista su quel luogo. Quando fai un documentario, spesso parti con un’idea e poi scopri che è tutt’altra roba: è un aspetto che apprezzo tantissimo del lavoro del documentarista ma non era quello che mi interessava. Sono diversi anni che giro cortometraggi e lungometraggi tutti ambientati a Gioia Tauro e ora sto lavorando anche a un terzo film che si svolgerà lì; per me è estremamente importante mantenere il controllo del senso che percorre tutti i miei lavori».

A Ciambra è girato tutto il 16 mm. Perché la pellicola invece del digitale?

«Non amo il digitale, è tutto troppo definito, poi ti dà la sensazione di essere lì in quel momento e che la cosa possa continuare per sempre. La pellicola, invece, ti fa sembrare che quello che racconti sia una storia che a un certo punto finirà, che il film è un pacchetto chiuso».

Nei docu-film o comunque nei film a forte impronta realistica come A Ciambra l’uso della musica è spesso ridotto al minimo. Tu invece hai optato per una scelta opposta. Ci puoi raccontare un po’ il lavoro sulla colonna sonora?

«Sì, volevamo giocare su questa diversità. Noi volevamo molta musica perché la musica aggiunge ritmo e poi amplifica le sensazioni di Pio. In particolare, la musica è presente in due momenti: uno quando Pio si confronta con una persona familiare (come il nonno o Koudous), l’altro quando ha una missione da compiere. In fase di editing, io e il montatore mettiamo una musica che ci sembra la più adatta possibile a rendere lo stato d’animo di Pio, poi facciamo vedere la sequenza a Dan (Romer, il compositore, ndr) spiegandogli le nostre scelte e lui quasi sempre ci propone sonorità simili ma suonate con strumenti molto diversi».

Sempre a proposito di musica, perché hai scelto quella canzone sul finale?

«Si chiama Faded ed è di un dj svedese Alan Walker. Alla Ciambra c’è sempre musica, hanno casse enormi, e sentono musica in continuazione. All’inizio, quando stavo scrivendo la sceneggiatura, c’era sempre Baby K, poi, durante i 91 giorni delle riprese, si sentiva sempre Faded: mi era entrata nel cervello! Così, quando stavo montando l’ultima scena, mi è venuto automatico dire: va be’, dai metto questa, vediamo se funziona… Ed ha funzionato benissimo».

Il tuo film è prodotto da un gigante come Martin Scorsese. Com’è nata e come si è sviluppata questa collaborazione?

«Dunque, io non so bene come la sceneggiatura di A Ciambra sia finita sulla sua scrivania. Da quel che ho capito i miei produttori brasiliani (della RT Features, ndr) gli hanno fatto vedere i miei precedenti lavori e a lui sono piaciuti; poi io gli ho inviato un libro di mie fotografie della Ciambra insieme a una lettera in cui gli spiegavo perché questo film secondo me era importante e, nulla, lui ne è rimasto molto colpito e mi ha voluto sostenere attraverso il suo fondo per registi emergenti. Devo dire che mentre giravo non mi ero reso neanche reso conto della cosa: cioè, sapevo bene che Scorsese era il produttore, ma io ero in Calabria, isolato dal mondo esterno, lui non era lì con me, non visionava i giornalieri. Solo quando ho dovuto mostrargli un primo pre-montato, lui è davvero entrato nel progetto. A livello pratico, mi ha aiutato e seguito di persona durante il montaggio. È stata una scuola di cinema unica, mi ha spinto a trovare un equilibrio tra i lati più sperimentali del racconto e la struttura più tradizionale del romanzo di formazione. A quanto pare, vuole continuare a seguire questo mio esperimento cinematografico che sto facendo giù a Gioia Tauro anche con il prossimo film».

Pur trattandosi di film molto diversi, sarà per la stessa sincerità di sguardo, sarà perché sono entrambi ambientati in una Calabria dal paesaggio “stuprato”, A Ciambra mi ha ricordato Corpo celeste di Alice Rohrwacher.

«Be’ Alice è una delle mie migliori amiche, con lei ho un confronto continuo, ci sentiamo almeno quattro o cinque volte a settimana. Siamo quasi fratelli, ci conosciamo bene, condividiamo una stessa idea di cinema, cerchiamo la bellezza nelle stesse cose. Come dicevi anche tu, i nostri film sono molto diversi ma è vero che l’approccio è un po’ lo stesso: raccontiamo un luogo attraverso lo sguardo del protagonista. Rossellini diceva sempre che è tramite il personaggio che vediamo il contesto, mai viceversa; dunque, dobbiamo seguire il protagonista e solo tramite lui conosciamo il mondo in cui vive. Questo concetto è uguale sia in Corpo celeste sia in A Ciambra. In Corpo celeste, Alice ti fa vedere quel mondo dal punto di vista di una ragazzina straniera, arrivata dalla Svizzera, perché lei stessa era straniera in quell’universo; io volevo invece raccontare la Ciambra così come la vede Pio, uno che non si meraviglia di quella città perché per lui è sempre stata così. Trattandosi di due protagonisti diversi, il loro sguardo è diverso, e dunque i film sono diversi, ma è innegabile che i nostri lavori abbiamo lo stesso sapore».

Tu che tipo di spettatore sei? Che film ami guardare?

«Nel mio tempo libero non faccio altro che guardare film. Cerco di guardare tutto, soprattutto di conoscere fino in fondo i vari registi, guardando tutti i loro film dal primo all’ultimo; procedo per autori, piuttosto che per un periodo storico. In questo momento sto guardando tutti i film di Olivier Assayas: quello che mi ha colpito di più è stato Summer Hours, anche se lui non è tra i miei preferiti come lo sono ad esempio Matteo Garrone e Alice Rohrwacher».

Prossimi progetti?

«Un altro film ambientato a Gioia Tauro, ma con protagonista una ragazza italiana che vive in Calabria da anni. Sto cercando di costruire una sorta di mosaico di quel luogo mostrandolo da diversi punti di vista; così dopo la prospettiva degli immigrati in Mediterranea e quella degli zingari in A Ciambra, ora mostrerò quella degli italiani. Per citare ancora una volta Rossellini, lui diceva sempre che nel piccolo riesci a raccontare il grande: io questa cosa l’ho sentita proprio nel cuore, e allora mi lego alla storia di un personaggio e spero, nel suo piccolo, di mostrare una cosa più grande». 

     

     

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