Una famigliola felice in riva a un fiume, estate, fiori, giochi nell’acqua di bambini biondi. Al tramonto si torna a casa: una bella casa spaziosa, con una piccola piscina, una serra, un giardino, persone di servizio. E un muro, alto, oltre il quale, soprattutto la notte, echeggia un rombo sordo e si leva un fumo nero e denso. E a volte piove cenere. Dopo Birth e Under the Skin, il cineasta britannico Jonathan Glazer si ispira al magnifico romanzo omonimo del 2014 di Martin Amis (morto il 19 maggio di quest’anno, proprio mentre il film passava in Concorso a Cannes 2023, dove avrebbe poi vinto il Grand Prix), La zona di interesse, traendone l’essenza: la serenità domestica della famiglia di Rudolf Höß, primo comandante del campo di concentramento di Auschwitz, e di sua moglie Hedwig, mai intaccata da rumori, odori, orrori. Un quadro lucido e rigoroso, agghiacciante nella sua astrazione.
In occasione dell’anteprima italiana del film, che uscirà nelle sale il prossimo 18 gennaio con I Wonder Pictures, Glazer, ospite nella Capitale per la Festa del Cinema di Roma (l’abbiamo incontrato anche noi: troverete tutto sul numero di gennaio della rivista), ha tenuto anche un incontro col pubblico dell’Auditorium Parco della Musica, intervenendo nel corso di una masterclass moderata da Nico Marzano. Ecco i punti salienti toccati dal londinese Glazer nell’incontro.
THE ZONE OF INTEREST
“C’è un film che senti e un film che vedi. In questo è un’esperienza totale da un punto di vista cinematografico. Pur utilizzando degli attori, volevo trattarli come se io avessi bisogno di credere a loro, a chi sto guardando. Se io credo a ciò che sto guardando anche il pubblico ci crederà, ma sono il primo a dover crederci. Parte da me, dalla mia indagine, e si tratta di creare una distanza critica tra lo spettatore e il soggetto, in modo da assistere ad azioni e movimenti senza essere coinvolti dalle psicologie sullo schermo, cosa che faremmo in un film tradizionale. Ciò permetteva agli attori di essere presenti in tempo reale, ripresi da diverse macchine da presa. In tal senso non ho descritto le scene, ma le situazioni”.
IL RAPPORTO CON LIBRO DI MARTIN AMIS E LA MISURA DELLA RAPPRESENTAZIONE DELL’OLOCAUSTO
“Il libro, per chi l’ha letto, è una lettura feroce, parla di un comandante di un campo basato su Auschwitz e Anna Doll, il personaggio, è basato sulla moglie Hedwig. Si tratta di un tema su cui ho riflettuto molto dopo aver letto il libro, c’era una prospettiva coraggiosa e ne ho parlato per un lungo periodo di tempo col mio produttore. Ho fatto molte ricerche ed erano figure normali, vuote, abitudinarie, familiari, grottescamente familiari. Il film, rappresentando i colpevoli, ci permette di stare dalla prospettiva dei carnefici e non da quello, solito, delle vittime. Volevo guardarli fuori dai tròpoi del cinema contemporaneo, come un Grande Fratello in una casa nazista, in cui siamo chiamati a guardare, però, e non a partecipare come al solito”.
PERCHÉ UN FILM SULLA SHOAH
“Probabilmente è la domanda più difficile che mi sia stata posta. Sapevo che l’avrei affrontata a un certo punto, solo non sapevo quando. Il modo, per me, per cercare di dare un contributo, era indicare le somiglianze che abbiamo con i colpevoli e il disagio che questa consapevolezza ci comporta. Non volevo realizzare un film che fosse un pezzo da museo, da guardare a distanza perché il fatto che sia successo ottant’anni fa ci chiama fuori. Bisogna dimostrare a noi stessi che siamo in grado di fare le stesse cose ancora oggi, di seguire quella strada che per noi è abominevole. Ho fatto anche delle proiezioni per un pubblico tedesco per vedere come il film agiva su degli spettatori in Germania, ho fatto quanto di più scrupoloso possibile potessi fare pur non essendo germanofono. Non c’è nessuna bussola morale nel film, anche se non capisco come si bossa mangiare la carne nel piatto senza pensare né voler vedere ciò che si è fatto prima, come processo, affinché ci arrivasse in quel modo in cui la consumiamo”.
I FILM CON “QUALCOSA DA DIRE”
“I film a cui reagisco sono soprattutto film che hanno qualcosa da dire o da comunicare: qualcosa di non verbalizzato, ma percepito, sentito. Il cinema è più efficace nello spazio politico e psicologico quando ci sono questo tipo di film secondo me, e sono anche quelli che più mi colpiscono. Credo che ciò che ci spinge a continuare ad andare al cinema siano proprio questi lavori. E per trovare la cosa giusta, la logica che cerco nel mettere insieme un film, ci devo credere io stesso per primo”.
LA GRANDE ESPERIENZA NEI VIDEO MUSICALI PER RADIOHEAD, MASSIVE ATTACK, JAMIROQUAI
“Non penso mai alla differenza tra i formati, anche se sono stato fortunato a lavorare in un periodo in cui l’artista aveva piena voce in capitolo e la casa discografica non interferiva mai con quello che voleva fare l’artista. MTV era un palcoscenico e i videomaker di quel periodo guardavano quello che facevano gli altri, c’era una concorrenza piacevole che spingeva a fare meglio degli altri. La pubblicità permetteva di sperimentare e l’affrontavo come quando preparo un’installazione o un film: ognuna di queste cose ha i suoi tempi, le sue esigenze strutturali, per cui le approccio nello stesso, identico modo. Nel caso delle pubblicità “vendi la tua merda per vendere la loro merda”, potremmo dire, ma rovesciando l’assunto si può anche dire che “vendi la loro merda per vendere la tua merda””.
IL RAPPORTO CON LE DIVE DEL GLAZER REGISTA
“Con Nicole (Kidman, ndr) sul set di Birth ho avuto un approccio fisico, non intellettuale, e lo stesso è stato per Scarlett (Johansson, ndr) in Under the Skin“.
Foto: Getty (Stefania D’Alessandro/Getty Images)
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