Chiude il sipario con il suo quarto episodio la saga di Hunger Games, e lo chiude in modo netto e intenso. Non come un semplice film di intrattenimento per teenager, ma un war-movie in piena regola con un manipolo di ribelli guidati da Katniss Everdeen, in prima linea a ispirare la rivolta di tutti i distretti di Panem, per la prima volta uniti contro i nemici comuni: Capitol City e il presidente Snow. Basta con gli abiti che prendono fuoco, con le gare tra stilisti, con le strategie dell’arena, l’ultimo film si tuffa a capofitto nei toni e nei ritmi della guerra.
La scena si apre con il collo dell’eroina rovinato dalle escoriazioni provocate dal tentativo di strangolamento di Peeta. Ha le corde vocali gonfie, la voce che esce a fatica, il cuore afflitto dalla pena di aver visto l’amato rivoltarsi contro di lei, trasformato in un “ibrido” dal depistaggio (lavaggio del cervello) attuato da Snow per trasformarlo in uno strumento del potere contro la Ghiandaia imitatrice. Solo a tratti e con l’andare del tempo il ragazzo troverà sprazzi di coscienza, ricordi, immagini che lo riporteranno più vicino al se stesso di prima. «Vero o falso?» continua a chiedere a chi ha intorno, incerto e malfidente verso le proprie sensazioni, le proprie credenze e reazioni.
Riprende le mosse da qui il franchise, dal confine incerto tra realtà e manipolazione (scopriremo chi è il vero “game player”), un concetto di fondo che si era già imposto con forza nella prima parte del Canto della rivolta e che qui viene sottolineato con tratto ben inciso. Katniss, la mockinjay del titolo originale, è stanca di essere usata dalla politica; si è prestata a diventare simbolo della ribellione contro Capitol nell’episodio precedente attraverso un uso spregiudicato delle immagini, ma è sempre più insofferente al suo ruolo e ai metodi usati dal Distretto 13 e dal presidente Coin (un’infida e come sempre superba Julianne Moore, supportata dal complice Philip Seymour-Hoffman resuscitato in parte in digitale), che non si fanno scrupoli di sacrificare i civili alla causa.
Bastano questi pochi spunti per sottolineare il distacco netto del franchise all’interno dell'”arena young-adult”. L’episodio finale di Hunger Games è satira politica, invettiva contro la strumentalizzazione delle immagini da parte dei media, film di guerra dai toni oscuri, quanto di più lontano dal mondo kids/teenager possa esistere, che si trasforma in invito alla rivolta di fronte a qualsiasi autorità voglia manipolarci, usarci, addormentare le coscienze con i “giochi”.
Jennifer Lawrence, col suo viso talmente intenso da riuscire a esprimere tutte le sfumature emotive che i dialoghi scarni non riescono a tradurre, decostruisce passo dopo passo il mito del “prescelto” che si asserve alla causa, attraverso scelte anarchiche, personali, impopolari. Che vive sulla propria pelle i costi in termini di vite umane della rivoluzione.
Combattuta da dilemmi morali di non facile soluzione, da una scelta sentimentale che con Peeta ridotto a ibrido e Gale sempre più “politico” è ancor più difficile; divisa tra il ruolo di simbolo e la lealtà a ciò in cui crede, troverà la propria strada e compirà il suo destino. Un destino che non prevede la gloria, ma che anzi la trasforma in un’antieroina talmente fedele a se stessa da diventare ancora più eroica. Davvero sola contro tutti.
Francis Lawrence è riuscito nel difficile traguardo di restare fedele all’originale letterario, prendendosi molte libertà, epurando i passaggi superflui, riducendo all’osso il racconto, riuscendo a esaltare così i colpi di scena. La prima parte è folgorante: ritmata e incalzante, trascina l’attenzione per più di un’ora con alcuni picchi notevoli a livello visivo (la scena del palazzo invaso dal petrolio e l’attacco degli ibridi sono sequenze cariche di tensione), prediligendo tutte le sfumature del grigio e una grana “grezza” quasi da mockumentary. E d’altra parte i ribelli stessi nel corso della missione filmano i loro pass-pro propagandistici con una sorta di camera a mano, come i reporter di guerra.
Il film sarebbe stato ancora più efficace se il regista avesse deciso di scollarsi ancora di più dal testo finale della Collins, con un climax che prevedesse una sorta di “duello” tra i due principali antagonisti, perché – a fronte di un incipit così martellante – lo stacco brusco (quasi uno stand-by) che precede l’epilogo smorza l’enfasi emotiva di tutta la prima parte, conducendoci in una sorta di limbo, dove quasi sentiamo pena per Snow più che la consueta avversione. C’è forse troppo tempo per riflettere e intuire il colpo di scena finale, che risulta inevitabilmente telefonato. Ma resta comunque un atto finale che chiude degnamente una delle saghe più amate, consegnando alla storia del cinema pop un archetipo eroico femminile che ha pochi paragoni.
È nel momento in cui Katniss si spoglia di tutto e torna nella natura del suo distretto, di fronte alla cui visione/fusione ritrova se stessa, che la decostruzione dell’eroe è compiuta. Resta solo la ragazza, la cacciatrice dei boschi, con i suoi desideri elementari, i suoi sentimenti e le sue scelte. Peccato per quei possibili tre finali consecutivi che sarebbero risultati più efficaci di quello definitivo, che sconta il gusto degli hollywoodiani per la retorica. Una battuta ad effetto un po’ artificiosa, che consideriamo un peccatuccio veniale a fronte di tutto il resto.
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