Gira voce che quando Woody Allen sceglie un attore per un suo film, gli scrive una lettera, una lettera cartacea, come si faceva una volta. Durante le interviste con il cast di Café Society all’ultimo Festival di Cannes, la questione viene sollevata con tutti gli interpreti, ottenendo le risposte più disparate: mi ha mandato una mail, un messaggio registrato, mi ha chiamato. A quanto pare, l’unico ad aver ricevuto una lettera è stato Jesse Eisenberg. Kristen Stewart, che si presenta a noi giornalisti con un giubbino dorato sopra un abito nero scollato, sfoggiando il caschetto biondo che segnerà a lungo quest’edizione del festival (e con il quale campeggia sull’edizione speciale di M, il magazine di Le Monde), mi racconta un’esperienza piuttosto tradizionale: «In realtà hanno contattato il mio agente chiedendo se fossi interessata, poi c’è stata una discussione preliminare al telefono, e alla fine ho dovuto registrare un provino su nastro. Mi ha dato la parte e ho letto lo script solo dopo averla accettata. Ma non esisteva un motivo valido per cui avrei potuto rinunciare al film». Per quanto mi riguarda, è la prima volta che la incontro, ma alcuni colleghi mi assicurano che oggi è molto più sciolta e disposta a chiacchierare di una volta. Nonostante questo, tiene per la gran parte del tempo lo sguardo basso e non sembra particolarmente a suo agio con la stampa, un contegno ampiamente sorpassato dal suo aspetto, dalla bellezza aliena e intoccabile che si porta appresso.
In che maniera ti sei avvicinata al tuo personaggio, questa segretaria indecisa tra un ragazzo squattrinato e talentuoso e un uomo sposato e molto potente?
«Vonnie ha una personalità per certi aspetti lontana da me, ma questo non mi ha allontanato da lei. La storia, per funzionare, aveva assolutamente bisogno di una persona con le sue caratteristiche – molto sociale, contagiosa, impulsiva, pronta a vivere il momento, una donna che apprezza la vita e ne sa cogliere la positività, senza pregiudizi. E questo, vista l’epoca in cui il film è ambientato, è uno sguardo proiettato sul futuro, soprattutto per il modo in cui Vonnie è pronta a vivere le sue relazioni senza sentirsi in colpa per le scelte che opera. Parliamo del 1938, quando giovani donne rispettabili di solito non facevano altro che essere ciò che la società si aspettava da loro, ovvero… delle perfette giovani donne rispettabili».
È la terza volta che lavori con Jesse Eisenberg, dopo Adventureland e American Ultra: come si è evoluto il vostro rapporto nel tempo?
«Sicuramente è cresciuto, amo moltissimo la sua intelligenza. È un po’ più vecchio di me, deve avere una decina d’anni in più, e la prima volta che ci siamo trovati su un set avevo forse 17 anni; eppure, sono entrata subito in sintonia con lui, principalmente perché non mi trattava come una ragazzina. Parlavamo di cose stranissime, di cui nessuno aveva voglia di discutere, ci perdevamo nei nostri dialoghi. Abbiamo sviluppato insieme una specie di seconda lingua, di cui la gente che avevamo intorno non si preoccupava perché probabilmente ci credevano due strambi, o addirittura che stessimo provando un dialogo dello script».
È per questo che ti piace lavorare con lui?
«Per questo e perché non provo alcun imbarazzo, posso esprimere tutte le emozioni del mio personaggio senza alcuna remora. Posso abbassare le difese e recitare liberamente, ed è un modo di lavorare davvero fantastico».
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Foto: © FilmNation Entertainment/Gravier Productions/Perdido Productions
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