«C’era una volta un ricco mercante, la cui figlia preferita si chiamava Belle. Durante una tempesta perse le sue ricchezze e la sua famiglia cadde in miseria. Ma la fortuna tornò a sorridergli…».
Un incipit che probabilmente vi dirà poco, se siete fan del classico Disney. Al contrario, se siete degli estimatori del racconto di Madame de Villeneuve, ritroverete nel film di Christophe Gans una certa familiarità con la storia di La Bella e la Bestia. Che poi, in fin dei conti, è quella che conosciamo tutti: una giovane donna si offre volontaria al posto del padre come ostaggio di una spaventosa creatura, che vive in un castello in mezzo al bosco, e col tempo gli insegna ad amare. Quello che cambia sono i dettagli: il contesto, l’antefatto, i comprimari, il passato e il futuro dei protagonisti. Elementi che il regista intende sfruttare per allontanarsi dall’immaginario disneyano, recuperandoli dal testo originale e rifacendosi al celebre adattamento della fiaba firmato da Jean Cocteau nel 1946. Niente più stoviglie parlanti, inventori incompresi, spasimanti dal bicipite pompato e fate travestite da mendicanti, per intenderci. Ma un padre di sei figli (tre maschi e tre femmine) che, perdendosi nella foresta, incappa in una Bestia dentro le cui vene scorre il sangue blu di un principe, condannato in quel corpo da un lutto e una maledizione.
Se nelle intenzioni c’era quella di trarne un racconto adulto, a tratti dark, il risultato finale è meno coraggioso di quanto ci si aspetti, perfettamente in sintonia con le frequenze fantasy tanto di moda negli ultimi tempi. E da questo punto di vista il film non si risparmia: un tripudio di CGI accompagna ogni singolo fotogramma, dipingendo scenografie, paesaggi e personaggi palesemente figli della tecnologia digitale. L’abuso della computer grafica e dell’elemento magico – funzionale a far emergere il passato del principe, che si rivela a Belle in sogno – assume connotazioni un po’ frivole, come nel caso degli indefiniti animaletti che abitano il palazzo e si divertono a spiare Belle.
A stridere non è solo l’accostamento tra digitale e attori in carne e ossa (il che comunque è questione di gusti): spesso sono le singole unità del racconto a risultare frammentate e a non trovare una loro continuità. Ci spieghiamo meglio: il film alterna sequenze in cui la narrazione passa attraverso una mamma che legge la storia ai suoi bambini ad altre in cui la favola prende vita, mostrandoci a turno la relazione di amore/odio tra Belle e la Bestia (qui andrebbe aperto un discorso a parte sulla velocità con cui Belle finisce per innamorarsi del suo carceriere), la trasformazione di quest’ultimo e le vicende legate al padre e ai fratelli della protagonista (le meno riuscite e, francamente, le meno interessanti per lo scarso appeal dei personaggi coinvolti).
Il vero problema, però, è un altro: il film è privo di una sua identità, impegnato com’è a citare altre celebri pellicole: chi non ha pensato al castello di Edward mani di forbici la prima volta che viene inquadrato quello della Bestia? E le due sorelle di Belle non ricordano forse le sorellastre di Cenerentola? Almeno un paio di sequenze sembrano addirittura copia-incollate dai più recenti Biancaneve e il cacciatore e Il cacciatore di giganti (non diciamo di più per non spoilerare). Persino la scelta di affidare il racconto al voice over, che nel film di Bryan Singer proponeva una curiosa chiave di lettura, qui finisce per rivelare fin dall’inizio l’identità del narratore, e con questa l’epilogo della favola.
Se da un punto di vista tecnico non si può obiettare nulla – la CGI e gli effetti speciali toccano standard qualitativi molto elevati – sfugge il target a cui il film si rivolge. Troppo ingenuo e patinato per far presa sul pubblico adulto; troppo denso di sottotrame per i più piccoli, che probabilmente rimarranno incantati da costumi e scenografie, ma dei temi (dell’amore, della giustizia, del rispetto e dell’avidità) coglieranno ben poco. A sottolineare la discrepanza tra il notevole investimento a livello grafico, a cui non corrisponde un’altrettanta qualità di scrittura. E che neppure i volti di Vincent Cassel e Léa Seydoux riescono a compensare.
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