Se n’è andato all’età di 91 anni Jean-Luc Godard, uno dei registi più importanti di ogni tempo, cineasta totale, sperimentatore e inventore di forme che hanno cambiato la storia del cinema. Nato a Parigi il 3 dicembre 1930 in una ricca famiglia borghese protestante di origine svizzera, il padre era medico e la madre discendente da una famiglia di banchieri. Godard compie i suoi studi presso un collegio svizzero e nella sua città natale dove, dopo il liceo, frequenta la Sorbona ottenendo, nel 1949, un diploma in etnologia. Nel frattempo inizia frequentare i numerosi cineclub nati dopo la guerra, conoscendo il critico André Bazin e tanti futuri registi come lui (allora ancora critici) quali François Truffaut, Claude Chabrol e Jacques Rivette.
Nei primi anni ’50 si distingue per le sue critiche cinematografiche di stampo radicale su riviste come Arts e i Cahiers du cinéma dello stesso Bazin. Risale al 1950 il suo primo articolo sulla Gazette du Cinéma, intitolato Joseph Mankiewicz, e nel 1952 giunge proprio ai Cahiers du cinéma con lo pseudonimo di Hans Lucas dove pubblica tre articoli: una breve recensione su Rudolph Maté, una più impegnata recensione su L’altro uomo di Alfred Hitchcock e un saggio dal titolo Difesa e illustrazione del découpage classico che dimostra la sua visione totalizzante delle arti come la letteratura, il cinema e la pittura. Come per tanti registi di quel tempo, però, anche per Godard la critica cinematografica è solo un intermezzo formativo e di passaggio, un’attività da abbandonare alle soglie della maturità per dedicarsi a fare cinema in prima persona, una cosa per giovani.
Il primo lungometraggio risale al 1959 ed è un film che diverrà manifesto assoluto della Nouvelle vague francese, uno di quei film per i quali nella storia del cinema c’è un prima e un dopo: Fino all’ultimo respiro. Il lungometraggio, germogliato da un’idea messa da parte da Truffaut e il cui titolo originale è À bout de souffle, viene girato in sole quattro settimane tra le strade di Parigi con un budget limitato e il ricorso all’utilizzo della cinepresa a mano, codificando delle trasgressioni decisive rispetto al “cinéma de papà” francese del tempo: montaggio sconnesso, attori che si rivolgono direttamente al pubblico, sguardi in macchina. Evidente e a dir poco sbandierata anche la cinefilia di Godard, che cita ossessivamente i film statunitensi di genere degli anni cinquanta, e contribuisce a fare del film, premiato a Berlino per la miglior regia e in grado di rendere i protagonisti Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg delle icone immortali, un crocevia fondamentale per la nascita del cinema moderno.
Gli anni ’60 sono caratterizzati per Godard da grandissimo fermento artistico, con opere imprescindibili come Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), con la musa Anna Karina, e Il disprezzo (Le mépris, 1963), con Michel Piccoli, Brigitte Bardot e una memorabile sequenza a Villa Malaparte a Capri. Di questo periodo (1964) è anche un altro dei più famosi film godardiani: Bande à part, ambientato in una Parigi fredda e autunnale, racconta la storia di due amici, interpretati da Sami Frey e Claude Brasseur, che incontrano casualmente una giovane ragazza, bella e ingenua, interpretata da Anna Karina, che influenzerà nel breve e lungo termine le loro esistenze. La splendida sequenza girata nel Louvre, dove corrono come forsennati lungo gli immensi spazi del museo verrà ripresa molti anni dopo da Bernardo Bertolucci nel suo film The Dreamers – I sognatori, dove i protagonisti Eva Green, Louis Garrel e Michael Pitt ripetono la corsa proprio nel Louvre identificandosi in Franz, Arthur e Odile, appunto i tre giovani spensierati che girano per Parigi con una vecchia SIMCA decappottabile e passano le giornate tra un corso d’inglese e un bistrot dove bere qualcosa e fantasticare sul loro futuro. Nel corso di questi anni, Godard rivolge la propria attenzione anche ai contenuti erotici dell’immagine contemporanea: manifesti di attori, pubblicità, fumetti, riviste patinate. In quest’ottica nascono film come Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (1965), Il bandito delle 11 (1965), Due o tre cose che so di lei (1967).
Negli anni immediatamente successivi mette in discussione la sua stessa natura di autore, sposa gli ideali marxisti di feroce critica alla società dei consumi e valuta la possibilità di realizzare un cinema davvero rivoluzionario, fondando il Gruppo Dziga Vertov, collettivo basato su un revisionismo totale. Il cinema diviene il luogo in cui mettere in atto una severa critica della civiltà dei consumi e della mercificazione dei rapporti umani, ma anche in cui si possa riflettere sullo stesso statuto dell’immagine come portatrice “naturale” di un’ideologia. Il problema della prassi diviene una costante della fase “politica” di Godard, nei film La cinese e Week End – Una donna e un uomo da sabato a domenica (entrambi ancora del 1967).
Dalla metà degli anni Settanta, Godard esplora le potenzialità dei nuovi mezzi tecnologici, in cui video ed elettronica si fondono con il cinema, mentre tra i film più significativi degli anni Ottanta ci sono Passion (1982), Prénom Carmen (1983) e Je vous salue, Marie (1985), rivisitazione scandalosa e apocrifa della storia della Vergine Maria. Nel 1988 per Canal Plus viene ideato il progetto, capitale e e monumentale, Histoire(s) du cinéma, che durerà fino al 1997 e dalla cui esperienza nasceranno quattro volumi con tutti i materiali interpretativi e iconografici che verranno pubblicati nel 1998. Con il film Nouvelle Vague del 1990 e con Hélas pour moi del 1993, Godard riesce a scrivere l’intera sceneggiatura senza usare una sua parola ma facendo dire ai personaggi frasi di altri per poter lasciare libero spazio alle immagini che, con la loro musica interna, creano una perfetta geometria.
Nell’ultima fase della sua carriera, più diradata sul piano della continuità della produzione, realizza comunque le sue opere dallo sperimentalismo più sprezzante e intransigente. Nel 2001 Éloge de l’amour viene selezionato a Cannes, mentre nel 2010 esce Film socialisme in occasione dell’Oscar onorario, che Godard però non ritirerà. Nel 2014 Addio al linguaggio vince il gran premio della giuria a Cannes, mentre Le livre d’image nel 2018 vince una palma d’oro speciale.
«Aveva un metodo di lavoro tutto suo. Non si seguiva mai una vera e propria sceneggiatura, lui teneva tutto nel suo cuore e nella sua mente. A casa nostra, invece, passavamo ore e ore a creare i miei personaggi, a farli vivere. Sono stati anni splendidi, nonostante il carattere di Jean-Luc non fosse dei più semplici», disse di lui la compagna di vita e d’avventura Anna Karina, mentre Bertolucci, che lo venerò per larga parte della sua vita e fece carte false per premiarlo col Leone d’oro a Venezia per Prénom Carmen, mettendo fine al suo digiuno di grandi premi nei festival, lo descrisse così, con una frase che restituisce benissimo e in maniera tattile e umbratile la sua sensibilità istintiva e inesauribile: «E Godard, che girava due o tre film all’anno, era l’autore che ci rappresentava meglio, con la sua severità un po’ calvinista e la sua capacità di tenere il mondo e quel che scorreva intorno nell’incavo delle sue mani».
Foto: © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS/Corbis via Getty Images
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