La Dea Fortuna, la recensione
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La Dea Fortuna, la recensione

Da oggi nelle sale il nuovo film del regista turco, interpretato da Edoardo Leo, Stefano Accorsi e Jasmine Trinca

La Dea Fortuna, la recensione

Da oggi nelle sale il nuovo film del regista turco, interpretato da Edoardo Leo, Stefano Accorsi e Jasmine Trinca

La Dea Fortuna
PANORAMICA
Regia (3)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (2.5)
Fotografia (3)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (4)

Alberto (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) sono una coppia consolidata, ma il loro rapporto sta mostrando la corda: Alberto, idraulico dal fascino animalesco che attira uomini, donne e bambini, porta a casa il pane e cede volentieri ai piaceri della carne; Arturo, traduttore passivo aggressivo, non è diventato né uno scrittore famoso né un cattedratico, e patisce l’assenza di un rapporto fisico, e ancor di più di uno scambio verbale, con il suo partner sfuggente.

Nella routine cristallizzata dei due irrompono Annamaria (Jasmine Trinca), ex compagna di Alberto, e i suoi due figli nati da padri diversi, e tutti gli equilibri saltano. Annamaria deve fare alcuni esami diagnostici e affida i figli alla coppia di amici, che dovranno fare i conti con una responsabilità genitoriale forse mai nemmeno immaginata, nonché con la capacità dei bambini di metterti di fronte a quello che sei veramente.

La Dea Fortuna, la nuova fatica di Ferzan Ozpetek, trova proprio nel tema della scoperta tardiva e non convenzionale della genitorialità e nell’appassimento di un amore colto nei suoi giorni peggiori il combustibile per riaccendere l’ispirazione dei suoi film di un tempo. Quei lungometraggi in cui il sentimento sgorgava in maniera dolorosa e stropicciata ma senza rinunciare a ricadute di dolente vitalità, che tornano puntuali anche qui, tra incontri imprevisti, balli in terrazza sotto la pioggia, tavolate e momenti a tratti eccessivamente patinati, ma comunque legittimati dalla voglia di osare del cineasta nato a Istanbul ma adottato dalla nostra industria cinematografica.

Un autore che ha interpretato in tempi non sospetti degli abbozzi di melodramma almodovariano indirizzandoli verso un approccio peculiare e molto personale (anche se, ovviamente, in tono minore rispetto al regista spagnolo), che ha rinsaldato negli anni il suo legame col pubblico. La Dea Fortuna, il cui titolo è un riferimento al Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina dove lavora il personaggio della Trinca, trova in un Edoardo Leo mai così volenteroso e intenso e in un Accorsi ispido e in sottrazione delle prove d’attore che gli mancavano da un po’ di tempo a questa parte. Ed è tangibile, a più riprese, la matrice autobiografica di questa storia, l’urgenza che porta con sé, la complicità e l’immedesimazione che traspirano dalla sceneggiatura scritta da Ozpetek insieme al collaboratore fisso Gianni Romoli (anche produttore con Tilde Corsi), nome di culto per la cinefilia nostrana, e Silvia Ranfagni.

La sincerità priva di argini che fa da sottofondo costante a ogni sequenza permette al film di superare in scioltezza i propri sbandamenti, interrogandosi sull’affievolirsi inesorabili di sogni e desideri, aspettative e orizzonti condivisi. Uno snodo importante per chi, come Ozpetek, ha spesso coltivato un’idea di familiarità estesa e che è piacevole ritrovare alle prese con le forzature della maturità. A differenza di molto nostro cinema non s’insiste mai sull’omosessualità dei protagonisti, raccontandoli non in quanto emblemi di un’identità LGBT specifica ma come esseri umani a tutto tondo, con una femminilità che investe paradossalmente più il personaggio di Leo, il più macho del duo, rispetto a quello di Accorsi.

La generosità de La Dea Fortuna emerge poi, oltre che dalle triangolazioni tra i protagonisti, dolcemente cementificate nel tempo, anche dai dettagli di contorno, onnicomprensivi e pronti ad abbracciare mondi lontani e ad amalgamarli insieme. Dalla colonna sonora, che si pregia della toccante Luna Diamante, fresca d’uscita e scritta da Ivano Fossati per Mina, e del brano di Diodato Che vita meravigliosa (sui titoli di coda e molto in linea con la sensibilità di Ozpetek) ai luoghi percorsi: una Roma che il regista non frequentava da Magnifica Presenza ma anche la Sicilia transitoria dello Stretto di Messina e quella più arcana e primitiva, tra Villa Valguarnera, Bagheria e la zona della Vergine Maria a Palermo. Scenari che assecondano le fattezze più misteriose e perfino esoterice dell’ultima parte di film, in cui a invadere la narrazione è la mefistofelica nonna incarnata dalla scrittrice Barbara Alberti, che presta il suo notevole volto a una figura dai tratti matriarcali quasi stregoneschi.

I momenti migliori de La Dea Fortuna e i più ispirati rimangono però quelli puramente romantici, che quando decidono di esserlo lo fanno senza retorica e convogliano sotto la stessa ala protettiva malattie e tradimenti, languori e strascichi, interni borghesi e litigate furibonde, soffuse luci turchesi e rossi più accesi. Il tutto fuso insieme secondo traiettorie spontanee e quasi rustiche, senza grandi pretese ma con la capacità di lavorare in modo traumatico ma non per questo gravoso sui cocci di un amore in frantumi eppure disperatamente ancorato al ricordo lontano di ciò che è stato e che si vuole, forsennatamente, continuare a far vivere.

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