Cristi (Vlad Ivanov), un ispettore di polizia di Bucarest, s’imbarca per l’isola di Gomera, nelle Canarie, per imparare in fretta il Silbo, un linguaggio fischiato che i contadini del luogo utilizzavano tradizionalmente per parlarsi da un luogo isolato all’altro. Ma il poliziotto è determinato a utilizzare quel codice, segreto ai più, per ben altro scopo: liberare un mafioso rumeno dalla prigione ed entrare in possesso di un’ingente somma di soldi sporchi.
Uno sbirro corrotto, una manciata di milioni, una superiore algida e rossa di capelli, che sospetta di Cristi e non vede l’ora di entrare nella truffa per avere la sua parte, un criminale da favorire e una femme fatale fatta apposta per scombinare tutti i piani. È il mix di situazioni e trovate, a metà tra il nero d’autore e il melodramma, che Corneliu Porumboiu, spericolato e solare alfiere della nuova onda del cinema rumeno, ha squadernato per il suo nuovo film, La Gomera – L’isola dei fischi, in arrivo nelle nostre sale (nonostante l’emergenza Coronavirus) dopo il passaggio in Concorso allo scorso Festival di Cannes, decisamente positivo in termini di accoglienza.
La Gomera arriva a quattro anni di distanza dal suo precedente The Treasure ed è un’operazione di genere apprezzabile per la libertà e la freschezza, che non cede nemmeno al cospetto di una trama qua e là eccessivamente arzigogolata. La mescolanza eterogenea e godibile tra gli stilemi del thriller e quelli del noir, venati di commedia surreale e accompagnati da una colonna sonora pop e lirica, che spazia da The Passenger di Iggy Pop alla Marcia di Radetzky (per chiudere sul finale sulle note di Sul bel Danubio blu), è infatti merce rara nel panorama del cinema europeo e d’autore di oggi, al cui interno Porumboiu rappresenta comunque da tempo una voce indubbiamente singolare e peculiare.
I temi portanti, sapientemente distillati con una perizia poco incline a prendersi sul serio, sono quelli del linguaggio e del denaro, consueti per questo regista, ma declinati con un atteggiamento smargiasso e non pretenzioso che li rende accessibili, molto concreti in rapporto al dispositivo cinematografico convocato, mai astratti o inutilmente intellettualistici. A questa dimensione da filosofia popolare sulla contemporaneità e sugli eterni flussi che regolano i codici della sopraffazione umana, tra doppie e triple piste e femme fatale dalla bellezza sconvolgente (a interpretare questo ruolo c’è la modella e attrice rumena Catrinel Marlon, nota anche in Italia per L’Ispettore Coliandro), si affianca anche un gusto cinefilo forse un po’ troppo prossimo al bignami, alla strizzata d’occhio e alla tappezzeria.
Pescare una sequenza specifica dell’immortale Sentieri Selvaggi di Jon Ford, proiettato alla cineteca di Bucarest e con John Wayne impegnato con un bombardamento sonoro per mano di nativi nordamericani (totalmente in linea con i discorsi portati avanti dal film sulla comunicazione), più che un vezzo da studente di cinema alle prime armi somiglia però a una folgorante postilla, di quelle che i grandi autori possono permettersi quando si muovono con fare libertario e piacione, rinnegando ogni canonizzazione e altare per divertire e divertirsi, come fossero in permesso premio (senza dimenticare, a questo proposito, che il personaggio della Marlon si chiama Gilda…). Il film è prodotto da Maren Ade, importante produttrice tedesca estremamente attiva e dietro la macchina da presa del successo arthouse Vi presento Toni Erdmann, e Sylvie Pialat, moglie del grande e troppo dimenticato Maurice.
© RIPRODUZIONE RISERVATA