A quarant’anni Claudio Giovannesi è, simbolicamente, il padre dei ragazzi interrotti del nuovo cinema italiano. Un’attenzione, la sua, che fin dal principio si è concentrata sul tema della crescita e del “diventare grandi”, cuore dell’esordio con La casa sulle nuvole, e che si è poi affinata attraverso l’osservazione degli ultimi – giovani, ragazzi e ragazze, alle prese con il passaggio all’età adulta in contesti più adulti di loro.
Succede già con Alì ha gli occhi azzurri, del 2012, storia dell’italo-egiziano Nader, sedicenne cresciuto nell’Islam da una famiglia conservatrice (un tema, quello dell’estremismo islamico, che sarebbe diventato tragicamente attuale di lì a poco) e della sua amicizia con l’outsider di borgata Stefano: il film – il cui titolo richiama il verso di una poesia di Pier Paolo Pasolini – partecipa in concorso al festival di Roma, si fa notare, vince il premio speciale della giuria.
Segue nel 2016 Fiore, presentato in concorso alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes, in cui Giovannesi segue le vite di due giovani detenuti in un carcere minorile, Daphne e Josh, raccontati nella loro vita quotidiana.
La formula è quella che tornerà anche ne La paranza dei bambini, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano: il pedinamento discreto dei personaggi, la sospensione di ogni giudizio morale, il tema dell’innocenza, l’assolutezza delle emozioni. E la capacità del regista, davvero unica, di scegliere i volti e i corpi giusti tra non professionisti, che incarnano – letteralmente aderendovi – i personaggi immaginati in scrittura (Giovannesi partecipa sempre alla stesura dei suoi copioni).
Un tema, quello della maladolescenza – così lontana dai frivoli corteggiamenti dei teen movie italiani dei primi anni 2000 – tornato di recente anche in altri film, da I figli della notte di Andrea De Sica, biglietto da visita per l’accesso ai turbamenti adolescenziali di Baby, e Cuori puri di Roberto de Paolis, altra scelta della Quinzaine nel 2017.
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