La prima notte del giudizio: le origini del cuore di tenebra dell’America. La recensione
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La prima notte del giudizio: le origini del cuore di tenebra dell’America. La recensione

Tra prequel e origin story, il quarto capitolo della saga ideata da James DeMonaco (qui solo sceneggiatore) fa il punto sull'intero franchise, tra immersione nei sobborghi della cultura black, violenza urbana alla John Carpenter e, ovviamente, il fantasma di Donald Trump

La prima notte del giudizio: le origini del cuore di tenebra dell’America. La recensione

Tra prequel e origin story, il quarto capitolo della saga ideata da James DeMonaco (qui solo sceneggiatore) fa il punto sull'intero franchise, tra immersione nei sobborghi della cultura black, violenza urbana alla John Carpenter e, ovviamente, il fantasma di Donald Trump

La prima notte del giudizio: la recensione

Per abbassare il tasso di criminalità al di sotto dell’uno per cento nel resto dell’anno, i nuovi Padri Fondatori d’America (NFFA) realizzano un esperimento sociologico estremo: permettere all’aggressività di una nazione di sfogare tutta la sua rabbia in una sola notte, all’interno di una comunità isolata, Staten Island, al cospetto di Manhattan. Il germe dell’abominio e dell’efferatezza si diffonde così come un morbo, senza possibilità di essere controllato. Anche gli omicidi, dopotutto, rimarranno impuniti, in questa cruenta catarsi incaricata di ristabilire la quiete psicologica di un paese intero…

Quarto capitolo della saga creata da James De Monaco, che ha scritto e diretto i primi tre film per ritagliarsi in questo caso il ruolo di semplice autore della sceneggiatura, La prima notte del giudizio è l’ennesimo prodotto sviluppato sotto la vigile egida produttiva della Blumhouse di Jason Blum, tra i più attenti e illuminati produttori di horror di oggi, capace di mettere in piedi una factory in scia alla lezione di Roger Corman e di imporre sorprendenti casi politici come Scappa – Get Out.

La prima notte del giudizio è il prequel di un’epopea cinematografica che politica lo è stata, esplicitamente, fin dal giorno zero, trovando non a caso ottimi incassi, segnale non trascurabile di sensibilità, di polso sullo stato delle cose. Gerard McMurray, regista di questo quarto film, esplicita ancor di più gli spettri del filone, guardando inevitabilmente a Donald Trump e al trauma di un’America black orfana di Obama e schiacciata dall’insicurezza, dalla violenza, dalle armi a piede libero (senza trascurare il fatto che siamo nell’America post-Black Panther). Il tutto in una notte dei lunghi coltelli a stelle e strisce, con una giovane donna, Nya (Lex Scott Davis), che prova a impedire che il suo quartiere povero e periferico venga risucchiato dalla devastazione.

Il refrain della Nascita di una nazione, archetipo cinematografico risalente a David Wark Griffith all’alba della storia del cinema, torna anche qui, come già in Birth of a Nation di Nate Parker, raccogliendo il testimone del miglior capitolo della saga a detta di chi scrive: il terzo La notte del giudizio – Election Year del 2016, sintonizzato direttamente sulle elezioni che portarono clamorosamente il Tycoon alla Casa Bianca nella notte dell’8 novembre (il film, invece, esce eloquentemente il 4 Luglio, giorno dell’Indipendenza). 

Il risultato è un altro film barbarico e ancora più meticcio, che affronta il genere con un’elevata sapienza spettacolare e suburbana, soffermandosi sulla genesi di quest’idea folle ma anche, in maniera meta-cinematografica e con un vago piglio alla John Carpenter (il fratello di Nya, Isaiah, ha il poster di Halloween in cameretta), sulle forze latenti alla base di tutti e quattro i capitolo (la biondissima psicologa di Marisa Tomei, ideatrice del progetto originario e new entry della serie, in questo senso fa il pieno di idealismo). 

Come l’ultimo film di Spike Lee, BlackKklansman, La prima notte del giudizio si confronta esplicitamente con la blaixploitation e con la sottocultura nera, trasformando il film di serie B nella sua concezione più muscolare possibile in un territorio di reietti e povertà, di espulsi dal tessuto sociale condannati all’anonimato, figli mai riconosciuti di un governo distante e immemore (il trailer non si faceva mancare nemmeno la tagline This is America, strizzando l’occhio al video già cult di Donald Glover alias Childish Gambino, un oggetto che meriterebbe un saggio a parte per la forza comunicativa e gli echi dirompenti).

Il film, che tenta di trasformare l’intera mappatura del territorio americano in una scena del crimine da non attraversare, non aggiunge ulteriori implicazioni a quelle già elaborate dalla saga lungo un percorso fatto di ben quattro film,  ma ha il merito di calare l’azione dentro la cronaca e il flusso indiscriminato dei canali all news. Di porre un’attenzione significativa e sintomatica sul concetto di sfogo o, come si suol dire di questi tempi nel nuovo lessico comune, di sfogatoio: elemento populista più che mai centrale nel dibattito politico dei giorni nostri per indirizzare comunicazione, consensi, propaganda a misura di campagna social. Ne sappiamo qualcosa, di questi tempi, anche in Italia, tra porti da chiudere e istinti bassi da sguinzagliare.

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