Devo farvi una confessione: temevo che un giorno mi sarebbe capitato di dover parlare del cinema di Dario Argento. E adesso, è capitato. E sono in grossa difficoltà. Quindi, facciamo così, la prenderò larghissima. Parliamo della grammatica. Quella della lingua scritta e parlata. Ora, secondo la Treccani, la grammatica è “il complesso delle norme che costituiscono il particolare modo di essere di una lingua, cioè il suo sistema fonematico, morfologico, sintattico, considerato nella sua totalità, come si riflette di volta in volta nelle singole espressioni. Una rappresentazione sistematica di una lingua e dei suoi elementi costitutivi”. Da nessuna parte c’è scritto che è una serie di dogmi inviolabili. Infatti, tanti grandi scrittori l’hanno violata, sovvertita e reinventata, per creare un loro personale linguaggio, e veicolare, in maniera più efficace, emozioni, stati d’animo, sfumature, colori e storie. E fin qui, siamo nell’ambito dell’acqua calda, giusto? Ora però, se uno scrittore non avesse violato intenzionalmente e consapevolmente quel “complesso di norme che costituiscono il particolare modo di essere di una lingua”, ma lo avesse fatto in maniera inconsapevole, perché, semplicemente, le ignorava, come verrebbe definito? Credo che, in quel caso, lo scrittore sarebbe additato, come minimo, come un analfabeta. Ma se, pur essendo un analfabeta, questo scrittore riuscisse a creare una narrazione incredibilmente efficace e seminale? A quel punto, questo cosa sarebbe? Un buon selvaggio? Un idiota sapiente? O forse un maestro o, addirittura, un genio?
“Maestro” e “Genio” sono parole con cui Dario Argento è stato etichettato spesso e scommetto che adesso, dopo una premessa del genere, vi aspettereste che io vi dicessi che non se le è mai meritate. Ma non è così. Io credo che Argento sia stato davvero un maestro, perché ha creato una scuola con moltissimi allievi sparsi in tutto il mondo. E credo pure che Argento sia stato davvero un genio, perché ha fatto cose che nessuno ha fatto prima e che nessuno è riuscito a replicare dopo. Però, se mi doveste chiedere se penso che le sgrammaticature del linguaggio cinematografico del Dario Argento degli anni d’oro fossero una scelta meditata, intenzionale e consapevole, ecco,io avrei qualche dubbio. Credo, piuttosto, che il suo cinema nasca da una strana miscela di fattori, determinata dalla pochezza dei mezzi iniziali, da un occhio inedito, spregiudicato e, a tratti, realmente visionario, da una volontà di fare qualcosa di diverso, da un fortunoso fraintendimento del canone hitchockiano, da uno spirito punk e iconoclasta e, infine, da una certa capacità tutta romana dell’“arronzare”, fare le cose un poco così, anche male, che tanto vanno bene comunque. E in Profondo rosso, alfa e omega del cinema di Dario Argento, tutto questo risulta ben evidente dall’uso spregiudicato, a tratti quasi comico, dell’inquadratura in soggettiva.
Ora, per i dettami della consueta grammatica cinematografica, le inquadrature in soggettiva sono un elemento da usare con estrema parsimonia perché sovrappongono la posizione del personaggio con quella del regista e con quella del pubblico. In un’inquadratura in soggettiva, infatti, tutti e tre questi elementi guardano a un qualcosa attraverso un punto di vista unico e condiviso, che nullifica la distinzione dei ruoli. Non è più il personaggio che guarda qualcosa, osservato dall’occhio del regista, che è a sua volta osservato dagli occhi dello spettatore, ma è personaggio-regista-spettatore tutto assieme. E poi perché, diciamocelo, non sono le inquadrature più eleganti del mondo. Eppure Argento, mutuandone l’uso abbastanza disinvolto che ne faceva il vecchio zio Hitch, in Profondo rosso non solo le usa, ma ne abusa, arrivando persino a negarne la natura, barando apertamente con il pubblico.
Un esempio: siamo nei primi minuti del film, al terzo, per essere precisi, e ci troviamo nella soggettiva del killer che, in un piano sequenza prolungato, entra nel teatro per assistere alla conferenza della medium (1).
Il primo elemento di disturbo deriva dalle riprese fluide della macchina da presa, che nemmeno provano a simulare l’incedere del passo umano. Il secondo elemento di disturbo è dato dalle tende del teatro, che si aprono davanti a noi per l’agire di due mani invisibili (2).
Poi ci sediamo tra gli altri spettatori e la regia diventa convenzionale (3).
Primi piani, mezzi busti, qualche controcampo. Appena entra in scena un elemento naturale, la camera torna a inventare, con strani movimenti e inquadrature dall’alto (4).
La medium crolla a causa delle sue visioni e noi ci ritroviamo dietro gli occhi dell’assassino (5)…
…che si alza, facendo scomodare quelli che stanno accanto a lui, e si dirige verso l’uscita. Camminando però, del tutto innaturalmente, all’indietro perché Argento ha bisogno di continuare a mostrarci cosa sta succedendo sul palco (6).
Arrivati alle tende, sempre procedendo a ritroso, le varchiamo per uscire questa volta e quelle, ancora mosse da una forza invisibile, si chiudono davanti a noi. Ora, questa è solamente una delle tante scene del genere che costellano il film e nemmeno la più assurda o illogica o formalmente scorretta.
In un qualsiasi altro film di un qualsiasi altro regista, queste sequenze sarebbero dei momenti di cinematografia risibili e goffi , propri di un cinema di serie Z, fatto senza budget, senza competenza, senza talento ma con il pallino del “famolo strano”. In Argento, invece, funzionano perché non sono nemmeno vagamente al servizio di una grammatica cinematografica definita e preesistente e nemmeno operano per costruirne una nuova di grammatica. La verità è che ad Argento, la grammatica, non interessa in alcuna maniera. Lui ragiona per momenti e divide ogni momento in attimi. Ogni attimo è al servizio di una cosa e una cosa soltanto: l’emozione suscitata. Non c’è un singolo dettaglio, una singola inquadratura, un singolo movimento di camera in Profondo rosso che non sia pensato per risultare disturbante e muovere qualcosa di profondo in noi. L’insieme di queste scene, compone un film che ha tutte le caratteristiche del capolavoro secondo i dettami di Umberto Eco, perché è scombinato (e l’andamento narrativo di Profondo rosso lo è non poco) e scombinabile, perché ogni sua parte può essere smontata dal tutto e presa a sé stante, rimanendo comunque pienamente autonoma e fruibile nelle sue intenzioni.
Adesso però, è il momento di una seconda confessione: ho quarantacinque anni e la prima volta che ho visto Profondo rosso ne avevo dieci. Sono cioè trentacinque anni che, di tanto in tanto, mi capita di rivederlo, e ancora non sono riuscito a sciogliere quel groviglio di sensazioni che mi provoca e a capire se lo ritenga un film assoluto e imprescindibile o solo uno sgangherato carrozzone pieno di brillanti intuizioni visive attaccate con lo sputo e senza logica, l’una all’altra. Però, come detto, sono trentacinque anni che lo rivedo, e ho l’impressione che questo debba significare qualcosa.
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Foto: © Rizzoli Film/ Seda Spettacoli
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