La stanza, la recensione
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La stanza, la recensione

Il thriller dalle sfumature horror e gotiche, diretto da Stefano Lodovichi e disponibile su Amazon Prime Video, schiera nel cast Guido Caprino, Camilla Filippi ed Edoardo Pesce

La stanza, la recensione

Il thriller dalle sfumature horror e gotiche, diretto da Stefano Lodovichi e disponibile su Amazon Prime Video, schiera nel cast Guido Caprino, Camilla Filippi ed Edoardo Pesce

PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (3)
Sceneggiatura (1.5)
Fotografia (2.5)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (2)

Stella (Camilla Filippi) è salita in cima al cornicione, vestita da sposa, in una giornata di tempesta. Sotto di lei il precipizio, alle sue spalle quella casa che a lei sembra sempre più vuota. Sta per buttarsi, ma qualcuno bussa alla sua porta: uno sconosciuto (Guido Caprino) che sostiene di aver prenotato lì una stanza tramite un sito Internet. Poco importa che quel sito non sia più attivo da tempo e che lo Sconosciuto non mostri ricevute di prenotazione o documenti di identità: l’uomo asserisce di conoscere Sandro (Edoardo Pesce), l’ex marito di Stella che se ne è andato senza più tornare, e la sposa abbandonata spera ancora di rivederlo. Dunque accoglie quello straniero che sembra conoscere molte cose di lei, senza valutare fino in fondo le conseguenze della sua decisione.

La stanza di Stefano Lodovichi, distribuito direttamente su Amazon Prime Video, è un esempio recente di thriller italiano dalle sfumature gotiche che, un po’ come il precedente ma ben più riuscito The Nest di Roberto Feo, individua nella familiarità – e soprattutto nella maternità – un nucleo di orrore quasi del tutto riconducibile al confine tra realtà e finzione, vite vissute e vite sognate, proiezioni e incubi. Un film di genere ambientato in un albergo anonimo, livido, ormai disabitato: un guscio vuoto del tutto scarnificato, al servizio di tre personaggi che sono, essenzialmente, dei simboli, delle emanazioni quasi spiritiche e non meglio precisate. 

Se il comparto tecnico, dalle scenografie di Max Sturiale alla fotografia di Timoty Aliprandy, avrebbe tutte le carte in regala per stupire ed evocare una ghost story da pelle d’oca, in grado di reggere la forza d’urto dei più esigenti appassionati di genere, la claustrofobia proposta da La stanza ha purtroppo il fiato corto (e non è certo quello di una tensione ansimante o tantomeno coinvolgente). Dopo un primo blocco non poco evocativo, in cui pare tutto azzeccato, dalle decorazioni alle pareti alla recitazione anti-naturalista dei tre bravissimi attori passando per l’uso straniante di vecchi brani pop (Stella Stai di Umberto Tozzi: una canzone da cui il cinema italiano degli ultimi anni pare ossessionato, utilizzi alla mano), il film infatti annaspa e si accartoccia su se stesso. Predilige una stasi verbosa, macchinosa e inutilmente disturbante in cui i limiti di sceneggiatura (scritta dal regista Lodovichi con Filippo Gili e Francesco Agostini) vengono a galla uno a uno. 

L’essere madri e l’essere figli si configura, da un certo punto in poi, come la chiave di tutto, in una sorta di rielaborazione dell’ossessione traumatica della stanza del figlio morettiana in chiave di b-movie, per così dire. Il principale problema del film di Lodovichi è però la mancata aderenza ai codici e ai linguaggi del cinema orgogliosamente di serie B: non c’è la schiettezza e l’onestà editoriale della Blumhouse (giusto per citare i più bravi), di quelle produzioni consapevoli di stare sfruttando al massimo un’idea risicata riuscendo nel miracolo di non renderla stiracchiata ma anzi, nei casi migliori, elevandola a potenza. Questa capacità singolare al nostro cinema di genere industriale ancora manca nonostante tutte le strombazzate rinascite: c’è infatti sempre un’ambizione alta immotivata e non legittimata che interviene sottobanco a compromettere e sabotare tutto senza motivo, e film come La stanza lo confermano. 

Il macabro triello proposto, dove Caprino si conferma attore eccellente, insieme viscerale e di metodo, e Camilla Filippi ed Edoardo Pesce tengono ottimamente botta alla sua deriva luciferina raggiungendo insieme un’invidiabile temperatura emotiva, col passare dei minuti sconta infatti sempre più la sua natura letteraria, teatrale e artificiosa e l’ottima direzione d’attori non basta più. Per maneggiare personaggi che sono archetipi e vettori così astratti sarebbe servita una costruzione drammaturgica più solida, o in alternativa una cassetta degli attrezzi horror meno compromessa da eccessi di scrittura a tavolino o schematismi psicologici troppo esibiti: soluzioni incolori e insapori come bicchieri d’acqua offerti a sconosciuti dei quali, nell’arco di nemmeno un’ora e mezza, si registra ma si dimentica anche tutto o quasi.

Foto: Arianna Lanzuisi (Lucky Red)

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