Italian crime story: mentre in televisione la tendenza (Suburra è l’ultimo caso) è quella di una spettacolarizzazione “depalmiana” della malavita, nella direzione netta della stilizzazione e del genere, il cinema scarta di lato e riporta gli stessi immaginari a confrontarsi con il reale, inteso però come dinamica sociale e non come cronaca storica.
Così Garrone, con il suo Dogman (qui la recensione), così ora i gemelli D’Innocenzo con La terra dell’abbastanza. La scelta è quella di raccontare un’idea di provincia più che un luogo geografico, e dentro di essa il modo in cui i ruoli sociali slittano continuamente dentro e fuori i margini della legalità, cioè una miseria liquida in cui non ci sono veri confini da attraversare ma soltanto opportunità, un destino da poco che – in assenza di coordinate culturali – decide per tutti.
Nel caso di Manolo (Andrea Carpenzano) e Mirko (Matteo Olivetti), poco più che teenager, il destino si manifesta nella forma di un pentito, investito per caso, di notte, e lasciato moribondo per strada. Al delitto seguirà il castigo, ma nella forma di un premio: Manolo, spinto dal padre (un Max Tortora “fuori canone”, formidabile), accetta di entrare a far parte di un piccolo clan mafioso che campa di spaccio e prostituzione, e che di quel pentito voleva liberarsi da tempo. Mirko lo inseguirà fino ad essere accettato a sua volta.
Il film racconta l’educazione criminale dei due scegliendo sempre l’anti-spettacolarizzazione, cioè il racconto della dinamica quotidiana in cui anche la violenza peggiore (alle ragazze che si prostituiscono, o ai rivali da togliere di mezzo) sembra sempre minuscola, una specie di norma vergognosa ormai invisibile, perché accettata da tutti. Non c’è impressione, non c’è trattativa, non ci sono minacce o grandi piani da svolgere: le cose accadono e basta. Manca completamente il gioco di guardie e ladri, ci sono invece famiglie disastrate, pranzi domenicali con il clan in ristoranti di terz’ordine, discussioni interminabili per spartirsi il peggio di una vita che non vuole nessuno.
La grande bravura dei D’Innocenzo è di tradurre questa linea teorica in un cinema ambizioso anche formalmente (la fotografia è di Paolo Carnera, che nel curriculum ha tra l’altro proprio Suburra, però il film), dove illuminazione naturalista ed espressionista si allacciano senza soluzione di continuità, dove le sfocature sono l’espressione di uno stato d’animo, e dove la distanza tra la macchina da presa e personaggi è sempre e comunque una questione morale: come i pochi campi lunghissimi in mezzo a tanto pedinamento, che spalancano improvvisamente lo scenario e riportano Manolo e Mirko alla proporzione con cui li guarda il mondo.
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