Tutti vogliono qualcosa potrebbe sembrare – come spesso accade con le opere di Richard Linklater – un film in cui non accade nulla, perché in realtà vi accade la vita con i suoi tempi e i suoi modi. Ed è questo il segreto di uno dei registi più sentimentali che ci sia: raccontare la vita con la vita e non con la macchina da presa. Prendendosi tutto il tempo che serve (anche vent’anni nel caso di Boyhood), seguendone lo svolgersi naturale, il suo scorrere, il dipanarsi delle chiacchiere – come in tutta la saga Before (Prima dell’alba, del tramonto e di mezzanotte) – le varie tappe di maturazione, senza bisogno di climax. Se per Hitchcock «Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate», per lui è quasi il contrario.
Linklater sceglie un momento ben preciso per collocare il suo nuovo coming of age: il fine settimana precedente all’ingresso al college del giovane Jake (Blake Jenner), che si è guadagnato una borsa di studio come lanciatore di baseball, e il 1980 (l’anno prima dell’insediamento di Reagan), periodo storico spensierato subito dopo il Vietnam ma prima della diffusione dell’AIDS, quando il terrore più grande per un ragazzo era al massimo di mettere incinta la ragazza di turno ed essere costretto ad accasarsi. Un’era edonista e spensierata, non ancora orientata verso la decadenza.
La vita di Jake nell’appartamento dove convive con i suoi compagni di squadra è costellata di party, goliardate, uscite in disco per rimorchiare – con i pantaloni stretti, i capelli perfettamente fonati e i baffoni alla Freddie Mercury -, bevute e fumate record, condite da chiacchiere filosofiche da bar. Qualche discorso pregnante non manca, ma è soprattutto la competizione, sul campo, con le donne o a ping pong, a contrassegnare le giornate dei ragazzi. Un’orgia rutilante ma innocente, una sorta di Animal House sentimentale e poetico o – come lo ha definito un critico americano – «un Porky’s diretto da Rohmer», ossimori che con Linklater si sciolgono senza imbarazzo.
In questo racconto costellato di riti di passaggio, nonnismo e sperimentazioni di ogni genere, come dice il titolo tutti vogliono qualcosa dalla vita e cercano di ottenerlo disperatamente: lanciando un palla corta e veloce, battendo un home run o correndo forsennatamente da una base all’altra. Non tutti ce la faranno, alcuni saranno “espulsi”, ma ad avere la meglio – sembra suggerire il regista – saranno quelli che come Jake, imbeccato dallo strafumato Willoughby, non si faranno abbattere dalle ingiustizie gerarchiche che vedono osannati i battitori, ma che sapranno giocare il loro ruolo modesto di pitcher senza ansie, senza scimmiottare nessuno, ascoltando il proprio intuito. E il ragazzo lo farà, corteggiando seriamente la bella Beverly, che ama il teatro e lo spettacolo, e lanciandosi in esperienze diverse da quelle del gruppo dominante, come quando un po’ stranito si intrufola a un concerto punk. Il tutto scandito da una colonna sonora gioiello, che mescola disco-music, metal (il titolo del film è una canzone dei Van Halen), country e il già citato punk.
Tutti vogliono qualcosa è la naturale ultima tappa di un percorso cinematografico iniziato con La vita è un sogno (1993, di cui Everybody Wants Some è un po’ il sequel ideale) dedicato a raccontare il tempo e il suo srotolarsi, a cogliere e immortalare l’attimo, anzi l’insieme di attimi – perché questa è ridotta all’osso l’essenza del suo cinema – in cui il ventaglio delle possibilità deve ancora aprirsi, a celebrare la magia e il potere della giovinezza, con tutta la nostalgia che inevitabilmente ne deriva. Linklater e i suoi film fatti apparentemente di nulla e invece pregni di tutto dovrebbero essere dichiarati patrimonio dell’umanità.
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