Carroll Shelby (Matt Damon) è il pilota che nel ’59 ha vinto la 24 ore di Le Mans, la più ardua delle gare automobilistiche. Quando scopre di non poter più correre per una grave patologia cardiaca si dedica a progettare e vendere automobili. Con lui c’è il suo fedele amico e collaudatore Ken Miles (Christian Bale), dotato di uno spiccato talento per la guida, ma anche di un carattere complicato. Insieme accetteranno la sfida targata Ford di sconfiggere la Ferrari e si batteranno per vincere una nuova 24 ore di Le Mans, contro tutti, a bordo di un nuovo veicolo messo a punto da loro stessi.
Le Mans ’66 – La Grande Sfida (titolo originale Ford v Ferrari), diretto da James Mangold, il regista di Quando l’amore brucia l’anima e Logan, è il prototipo da manuale del film sportivo animato da passioni forti, sceneggiatura a orologeria e interpreti sopra il livello di guardia. Un modello narrativo che il cinema a stelle e strisce coccola spesso, da Rush di Ron Howard in giù, e che in questo caso si nutre della contrapposizione, evidente e sbandierata, tra indole e marketing, tra autorialità e industria, per dirla in termini – per l’appunto – cinematografici.
Perché è proprio quest’elemento a fare da cuore pulsante (e da motore rombante, va da sé) all’interno di Le Mans ’66, in arrivo nelle nostre sale dopo aver raccolto entusiasmi allo scorso Festival di Toronto: il conflitto, insanabile ed eterno, tra un prodigio del volante dall’estro imprendibile, tanto nella vita quanto sulle quattro ruote, e le ragioni di una casa automobilistica attentissima all’immagine e allo “stile Ford” ma altrettanto incapace, dietro gli sterili sorrisi a trentadue denti e l’aspetto impomatato dei suoi addetti alla comunicazione, di agguantare uno straccio di vittoria degna di nota (per non parlare delle tante aziende sportive che oggigiorno si ritrovano a dover far coesistere quotazioni in borsa e risultati sul campo, rispettabilità nell’opinione pubblica e ricadute nell’immaginario collettivo).
Una polarità che sfreccia sullo schermo grazie a una scrittura essenziale e a classica, votata agli snodi consueti della sconfitta e della rinascita, e alla prova attoriale del solito Christian Bale, emaciato e in grado di fare del proprio fisico da meccanico unto di grasso, segnato da cicatrici più interiori che esteriori e da smorfie di nevrotica follia, una maschera che tiene insieme propensione umorale e lunatica e potenziale infiammabile e fuori dal comune. Il suo Ken Miles è uno di quegli underdog al quale ti ritrovi ad affidare ambizioni e speranze in un battibaleno, con un senso di abbandono romantico che può ricordare certe smozzicate e ingrigite icone di tanti western, pronte a tornare in grande stile sulle scene dopo anni di appannamento e lontananza forzata dai riflettori.
Un processo d’identificazione che il film di Mangold veicola con un’ebbrezza in cui l’auto da corsa diventa una specie di involucro metaforico: un acceleratore di desideri in cui, premendo sul pedale e toccando le centinaia e centinaia di chilometri orari, il corpo finisce per sganciarsi dalla prigionia dei propri limiti per essere sparato verso un orizzonte dove non ci sono lampi di genio tali da dirsi impossibili e le certezze, oltre le catene dello spazio e del tempo, sono ridotte all’osso, con somma ironia: James Bond, ad esempio, viene bollato come un “debosciato” che non potrà mai guidare una Ford, mentre dall’altra parte della barricata la Ford Mustang viene etichettata prontamente da Miles come “un’auto per segretarie”.
Il design delle corse, dal canto suo, è sostanzioso e spettacolare, complice l’adrenalinico e curatissimo montaggio: i tecnicismi sono ben amalgamati con le esigenze drammatiche del pubblico generalista e l’attrazione quasi erotica per la benzina si sposa ai dettagli di contorno, con tanto di scenette esilaranti con protagonisti il burbero e corpulento Henry Ford II e l’elegante, ma non per questo non schietto, Enzo Ferrari, incarnato dal nostro Remo Girone, che in più di una sequenza recita in italiano (e addirittura in modenese), in maniera divertita e sorniona. Il pretesto di una delle più celebri e leggendarie corse automobilistiche di tutti i tempi si fa così il tracciato ideale per una storia ordinaria ma appagante di istinti primordiali e archetipi condivisi, di prime donne e gregari, di beatnik e dirigenti “affidabili” nel senso peggiore del termine, con i pilastri fondanti del sogno americano a fare da combustibile primario.
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