Un sottile gioco di seduzione prima, e una love story tanto dolce quanto struggente poi. È un’opera miracolosa, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, un genuino capolavoro che viaggia con invidiabile equilibrio tra tenerezza ed erotismo, confezionato con raffinata grazia (a firmare la sceneggiatura è James Ivory, non a caso) ma carico di coinvolgente effervescenza ogni qualvolta vediamo interagire i nostri protagonisti, legati da un’alchimia che buca lo schermo per fotogenia e intensità.
Immerso nell’idillio di un paesello italiano degli anni ’80, Elio è un 17enne la cui vita viene stravolta dall’arrivo di Oliver, studente universitario ospite del padre. I due condividono la stanza, e a nascere, silenzioso ma ineludibile, è quel sentimento che fa maledettamente paura ogni singola volta: l’amore. I nostri sono confusi («io so tutto tranne le cose che veramente contano», confessa Elio), si cercano con il contatto fisico, poi forse si rinnegano, fino al coraggio di specchiarsi finalmente l’uno negli occhi dell’altro, diventando, in tutto e per tutto, una cosa sola («Chiamami col tuo nome, e io ti chiamerò col mio»). Guadagnino non ammette forzature, né tantomeno l’eccesso di enfasi: il suo film odora magnificamente di caloroso abbraccio proprio per la maniera in cui tutto avviene nel più naturale dei modi, disegnando una mappa sentimentale con tale equilibrio, ricchezza di dettagli e nuda spontaneità da superare ogni possibile aspettativa.
A travolgere Timothée Chalamet è la lacerante forza del primo amore: non sappiamo se lui sia un grande attore o se abbia semplicemente azzeccato il ruolo giusto nel momento giusto, ma la sua performance brulica così intensamente di dolce innocenza e tangibile dolore da inserirsi di diritto in quella cerchia di interpreti da tenere assolutamente d’occhio per il futuro; dal canto suo, Armie Hammer appare più distanziato, ma ci regala i suoi momenti migliori proprio mentre il viso del suo amato sta rivolto altrove: lui, lì fermo in silenzio a osservarlo nella stanza di un albergo, con lo sguardo malinconico e sofferto tra il nulla e l’addio. E poi c’è Michael Stuhlbarg, protagonista di un memorabile monologo – da incidere sulla pelle – che aggiunge alla visione un ulteriore climax emotivo da ricordare negli anni.
Estate. Fuori dal tempo. In un ipnotico flusso tra sogno e meraviglia, scorrono la gioia, l’euforia, il sublime, quegli abbracci che vorresti non finissero mai più… e poi, giù di lacrime come se non ci fosse un domani, per sempre sospesi ai nostri fantasmi. La voce di Sufjan Stevens ci coccola, ma a rimanere nel cuore è una cicatrice che sa di indelebile spasmo.
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