L'immortale, la recensione
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L’immortale, la recensione

Il film standalone su Ciro Di Marzio diretto e interpretato da Marco D'Amore fa da ponte tra la quarta e la quinta stagione di Gomorra - La serie

L’immortale, la recensione

Il film standalone su Ciro Di Marzio diretto e interpretato da Marco D'Amore fa da ponte tra la quarta e la quinta stagione di Gomorra - La serie

L'immortale

Ciro di Marzio (Marco D’Amore), detto l’Immortale, è stato ripescato dopo il colpo di pistola in petto ricevuto da Genny e la caduta nelle acque della costa di Napoli. Don Aniello gli spiega che la sua resurrezione gli permette quello che per altri è solo un sogno: ripartire da capo. Gli affida l’incarico di fare da intermediario con la mafia russa a Riga, in Lettonia, dove però i russi sono in guerra con la criminalità locale. Per far arrivare la droga, Ciro si appoggia all’attività di sartoria contraffatta di Bruno, ossia il suo mentore di quando era bambino a Napoli. Una collaborazione che fa riaffiorare in lui molti ricordi…

Ciro Di Marzio era forse il personaggio di Gomorra – La serie che più di ogni altro dava l’idea di poter reggere l’urto di un film dedicato (standalone, direbbero gli americani), tale da fornire il pretesto per una origin story dalle spalle larghe, calzante e legittimata. Non stupisce, dunque, che il suo interprete Marco D’Amore, per il suo grande salto dietro la macchina da presa in un lungometraggio, abbia voluto approfondire i tormenti e la caratura psicologica della sua creatura con un approccio accessibile e non certo meditabondo: una scelta rivelatasi azzeccata, soprattutto sul piano commerciale, dati i soddisfacenti incassi che il prodotto sta portando con sé, chiamando a raccolta i fan del serial ma non solo.

L’immortale si configura così come un progetto ibrido e proprio per questo necessario, in tempi di permeabilità liquida tra cinema e tv: la sua natura ancillare, a cavallo tra la serialità e la fruizione in sala, funge da ponte tra la quarta e la quinta stagione, dimostrando che una fluidità di sfruttamento commerciale tra questi due emisferi dell’audiovisivo è di questi tempi non solo obbligata ma anche doverosa, con delle potenzialità ancora tutte da approfondire e da studiare. L’immortale in questo senso rappresenta un unicum, ma anche un esperimento che, dati i risultati in termini di riscontro, è probabilmente destinato a fare scuola a sua volta.

Il film di D’Amore, già regista di due episodi dell’ultima stagione della serie, si muove tra presente e passato aderendo in maniera millimetrica all’estetica di Gomorra, a quella caratura audiovisiva e agli elementi visivi e contenutistici che ne hanno fatto un marchio di fabbrica esportabile agevolmente anche all’estero. La morte di Ciro viene rinegoziata riprendendo le fila del discorso a partire dall’ultima puntata della terza stagione, spostandosi tra i ghiacci nono solo atmosferici della Lettonia e facendo muovere Ciro in un contesto altro, alieno: un contenitore funzionale per far emergere, per contrasto, il portato sentimentale della sua figura, con un corredo di emozioni forti che, per il modo in cui vengono proposte, a cuore aperto e con qualche ariosa concessione rispetto al crime tradizionale, si fa persino eversivo.

L’infanzia di Ciro nelle stradine strette di Napoli è il rimosso nel quale scavare per far emergere l’umanità intrinseca del personaggio, necessariamente sacrificata nell’economia narrativa che il piccolo schermo impone, dovendo far convivere le esigenze di ogni caratterizzazione con un più ampio d’insegno d’insieme e con lo sguardo congiunto di sceneggiatori, showrunner e registi che di volta in volta si avvicendano.

Il merito de L’immortale, pur all’interno di una storia conservativa che alla prova dei fatti non alza troppo l’asticella rispetto a quanto già detto e visto negli ultimi anni nelle produzioni gangsteriche nostrane, è invece proprio quello di ritagliarsi un cantuccio privilegiato, nel quale impiantare una costola autonoma:un prequel a tinte forti ma anche dolcemente crudo e non banalmente nostalgico (efficace, in tal senso, l’interprete di Ciro bambino, l’ottimo Giuseppe Aiello), con tutto il corredo di contraddizioni e fratture non pacificate che il passato è pronto a portare con sé.

L’immortale è anche un film perfettamente intelligibile anche per i neofiti di Gomorra – La serie, assai preciso nel muoversi in un contesto partenopeo dei primi anni ’80, tra il terremoto Irpino e i Mondiali vinti di Spagna ’82. Qualche pretesa è sicuramente sfocata e troppo ambiziosa, nel tentativo di fornire a Ciro uno spessore più letterario rispetto allo spazio dedicatogli in Gomorra – La serie, ma la confezione, dalla regia misurata e mai invadente di D’Amore alle ragguardevoli musiche dei Mokadelic, è indubbiamente intrigante nel mescolare passione e controllo e nel bilanciare le ragioni della mente e quelle del cuore.

E in definitiva non dev’essere stato affatto facile, per D’Amore, farsi largo da protagonista e perfino da autore in un confine così labile e sfumato tra irruenza e raziocinio, ma quest’irrisolta polarità, così affine alla doppiezza di Ciro e al suo pragmatismo incendiario ma anche calcolatore, è l’aspetto più interessante e carico di fascino de L’immortale. E, azzardiamo, la ragione più sotterranea del suo successo e della sua presa viscerale su un pubblico sempre più ampio.

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