Giovedì 5 dicembre approderà al cinema, in 450 copie, L’immortale, film standalone dedicato all’indimenticato personaggio di Ciro Di Marzio che provvederà anche a fare da gancio tra la quarta e la quinta stagione di Gomorra – La serie. Alla regia, al suo debutto dietro la macchina da presa in un lungometraggio, c’è Marco D’Amore, attore e regista teatrale e cinematografico che aveva già interpretato Ciro nelle prime tre stagioni del serial, fino alla morte del suo personaggio.
«Questa è una storia piena di conflitti, miserie e paure – dice D’Amore, poi divenuto anche regista del prodotto a partire dalla quarta stagione -, Un giorno, nel confronto con un grande criminale, lui mi disse: l’errore più grande, per chi ci osserva da lontano, è pensare che non abbiamo mai paura, quando invece noi ce la facciamo sotto tutti i giorni. Credo sia questo il sentimento che connota ogni personaggio di questa vicenda: la paura di non essere all’altezza, di non sopravvivere, di non farcela, di essere scoperto».
«Con la stessa paura abbiamo affrontato un percorso così pericoloso come questo film, temendo di tradire il pubblico – precisa il regista -, Ma sono convinto che questa storia arriverà. Da una parte soddisferà gli animi e dall’altra sono sicuro che farà capire che, come diceva un grande poeta, per diventare immortali bisogna riuscire a superare anche la logica, ed è quello che abbiamo».
L’esperienza e la formazione accumulate in questi anni hanno giocato il loro ruolo nell’accompagnare D’Amore nel confronto con quest’ambiziosa sfida. «I riferimenti teatrali e quelli letterari mi hanno senz’altro nutrito. Io dico sempre che il personaggio di Ciro è un personaggio romantico, in un’accezione storica. Uno di quei personaggi fatti, come diceva Byron, di polvere e di verità, in cui configgono l’ebbrezza e l’orrore più assoluti. David Mamet è uno dei miei pallini, e l’ho portato anche a teatro qualche anno fa, per la capacità che aveva nei dialoghi di tracciare in maniera efficace e precisa le descrizioni e i rapporti tra i personaggi».
«Gomorra io l’ho vissuta come una cantera – dice invece D’Amore, intavolando un paragone calcistico, a proposito della factory produttiva e di maestranze che la serie ha sviluppato negli anni -, Al suo interno si è allevata una notevole quantità di talenti e con i vari collaboratori tecnici abbiamo fatto molti discorsi, anche preliminari al girato, per cercare di trovare l’illuminazione del film e anche una distanza emotiva, attraverso le immagini, tra i due mondi che andavamo a mettere in scena, quello del presente e quello del passato. La sintesi del linguaggio passa anche attraverso i silenzi o dei momenti musicali e orchestrarli, mantenendo una matrice originale di fondo ma anche cambiandola».
Ma L’immortale non può che essere, allo stesso tempo, anche un film su Napoli. «Negli anni ’80 c’erano circa 250.000 famiglie a Napoli che campavano grazie al contrabbando. E Ciro bambino, orfano abbandonato a se stesso, viene intercettato da quella criminalità che raccontiamo anche come un mondo piratesco, guascone, avventuriero, con gente che va per mare di notte, rischiando la vita. Tanti altri ragazzi, come Ciro, sono stati intercettati dal contrabbando per poi rimanere orfani e hanno visto l’ascesa di tante famiglie nell’area nord di Napoli, da noi raccontata vent’anni dopo in Gomorra. Da contrabbandieri sono diventati poi spacciatori, assassini, associati a quella criminalità».
«Ci interessava soprattutto, però, raccontare la povertà di quella Napoli disastrata, che provava a mettere insieme i codici di una ricostruzione mai avvenuta e in cui c’era molta speculazione, soprattutto a carattere edilizio – aggiunge D’Amore precisando meglio questo punto -, Quella città si era dimentica della sua infanzia e ci siamo mossi anche a partire da alcuni documentari meravigliosi, come quelli che Joe Marrazzo ha realizzato su una Napoli notturna, su queste orde di ragazzini abbandonate a stesse che fin dagli ’70 andavano a recuperare i soldati americani che arrivavano in città per truffarli nei night, divenendo poi la piccola manovalanza dei contrabbandieri. Non volevo scordarmi, però, del legame di tutto ciò con la vita e la sopravvivenza, anche perché di Ciro bambino sono coetaneo, certe cose le ho viste e sono fortemente radicate nella mia memoria».
«Ho sentito che dietro questo personaggio c’era ancora un’indagine da fare per raccontare una storia che fosse avvincente e profonda e che, egoisticamente, mi mettesse di fronte a un ruolo che ho nel cuore e nella testa e alza sempre più in alto l’asticella delle mie difficoltà – risponde infine a chi gli chiede del suo legame sempre più saldo e prolifico con Ciro Di Marzio -, Nel mio percorso di allievo e attore mi sono confrontato con maestri e attori che hanno portato maschere per cinquant’anni. Ferruccio Soleri, che per mezzo secolo ha fatto Arlecchino, mi ha detto: “Ci sono delle cose che non ho ancora capito”. Dipende sempre da come s’interrogano i personaggi e le storie».
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