Più che cinema, arredamento. Il cinema di Wes Anderson combatte da sempre il pregiudizio innescato dalla sua simulazione di bidimensionalità: abbondanza di inquadrature frontali, movimenti di macchina lungo gli assi cartesiani, scenografie cartoonesche, recitazione brechtiana. Un pregiudizio alimentato dal saccheggio costante a cui la cultura pubblicitaria occidentale ha sottoposto i suoi film dai Tenenbaum in poi. La questione è: questo disequilibrio tra forma e contenuto è indice di superficialità o di forza espressiva?
L’isola dei cani, secondo film in stop-motion del regista dopo Fantastic Mr.Fox, è un contributo al dibattito che farà felice i sostenitori di Anderson, perché stavolta la metafora politica è chiara e la messa in scena la serve in modo potente.
Giappone, futuro prossimo: un’epidemia di influenza canina convince il governo, sostenuto dall’indignazione popolare, a esiliare tutti i cani su un’isola-discarica al largo di Tokyo, nonostante un’equipe medica sostenga di aver trovato un antidoto. Qui, dopo alcuni anni, atterra con un piccolo biplano a motore un ragazzo, in cerca del suo animale. Lo aiuteranno nella ricerca quattro cani addomesticati e un randagio, mentre dall’altra parte del mare si sta mettendo a punto un piano per bombardare l’isola e sterminare tutti i sopravvissuti.
Utilizzare l’animale domestico per eccellenza per intavolare un discorso sul panico di massa come movente politico e la crudeltà disumana del potere nei confronti delle minoranze non votanti (non monetizzabili), è un’intuizione semplice ed efficace. Per giunta la storia è così lineare – senza considerare l’età del protagonista umano – che verrebbe quasi da etichettarlo come “un film per ragazzi che può piacere anche agli adulti”, non diversamente dalla maggior parte delle cose fatte in stop-motion dalla Aardman. In realtà nella definizione c’è già tutto il paradosso commerciale di un cinema fin troppo raffinato, che non ha un target ben chiaro e richiede a tutti i pubblici prima di tutto un certo palato.
Perché allora questo potrebbe essere l’Anderson migliore, anche per i non fan? Perché la storia e i suoi protagonisti seguono – tra disvelamenti di identità, intrecci d’amore e una costante minaccia bellica – il manuale del romanzo d’avventura, quindi è facile appassionarsi al racconto, al di là della sua eccentricità e delle fissazioni del regista. Che restano le stesse, dall’elogio della natura selvaggia, non civilizzata (“Non potrei mai innamorarmi di una bestia addomesticata”), alla necessità di uno sguardo infantile – di nuovo, non addestrato – per rompere schemi e convenzioni sociali, portatori di una depressione cronica e generalizzata.
Poi certo, il piacere del collage e la stilizzazione sono sempre lì, serviti da un livello tecnico della stop-motion strepitoso e da un design di produzione ricco quanto bizzarro. E l’ironia è obliqua e stralunata, cioè si ride (chi ride) senza aver bene chiaro il perché. Ma un certo livello di riconoscenza sentimentale e politica dovrebbero essere di tutti.
Foto: © American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions, 20th Century Fox
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