«Lo chiamavano Jeeg Robot dimostra che anche in Italia possiamo fare hero movie senza imitare Hollywood»: intervista a Claudio Santamaria
telegram

«Lo chiamavano Jeeg Robot dimostra che anche in Italia possiamo fare hero movie senza imitare Hollywood»: intervista a Claudio Santamaria

L'attore ha messo su un fisico extralarge per interpretare il vendicatore di Tor Bella Monaca, prima ladruncolo e poi giustiziere per amore, nel cinecomic in uscita il 25 febbraio

«Lo chiamavano Jeeg Robot dimostra che anche in Italia possiamo fare hero movie senza imitare Hollywood»: intervista a Claudio Santamaria

L'attore ha messo su un fisico extralarge per interpretare il vendicatore di Tor Bella Monaca, prima ladruncolo e poi giustiziere per amore, nel cinecomic in uscita il 25 febbraio

Claudio Santamaria non ha certo bisogno di presentazioni, ma quando vi diciamo che in un ruolo come quello di Enzo Ceccotti non l’avete mai visto, credeteci. E non solo perché di supereroi, in Italia, non se ne vedono spesso, ma anche perché di supereroi così non ce ne sono mai stati. Un supereroe di periferia “pasoliniano”, chiuso, egoista e introverso come il Franco Citti di Accattone, ma dalla forza sovrumana come Superman e capace di autorigenerarsi come Deadpool.

Best Movie: Lo chiamavano Jeeg Robot è un caso abbastanza insolito per il cinema italiano. Che ne pensi?
Claudio Santamaria: «Ho già rivisto il film sei volte e, pur avendolo anche interpretato, continuo a non annoiarmi mai. So anche di tanta altra gente che l’ha visto e che muore dalla voglia di rivederlo. Il termine esatto per descrivere questo film è “entusiasmo”. È questo entusiasmo che l’ha reso già un cult, nonché uno spartiacque. Finalmente è la dimostrazione che anche in Italia certe cose si possono fare, senza dover per forza imitare gli americani, ma contestualizzando la storia, seppur fantastica, all’interno di una realtà fortemente connotata e che ci appartiene».

BM: In effetti lascia abbastanza sbalorditi.
CS: «Sì, perché pur raccontando la storia di un supereroe, il film non si dimentica mai dei personaggi e delle loro vicende emotive, riuscendo così a catturare lo spettatore. È un’opera dalle molte premesse e dalle molte ambizioni, e le soddisfa appieno. Per farti capire quanto sia ambizioso ti dico solo che Gabriele (Mainetti, il regista, ndr) ha impiegato cinque anni per riuscire a farlo. Nessuno ci credeva. Io, però, che conosco Gabriele da parecchi anni e so come lavora, appena ho letto la sceneggiatura ho subito capito che sarebbe diventato un successo».

BM: L’altra particolarità è che si tratta di un film multi-genere, giusto?
CS: «Sì. È un film che gioca con i generi. Anche tarantiniano, se vuoi, per la forte ironia e per lo sguardo sulla criminalità che non è mai tagliata con l’accetta. Sono criminali divertenti che, però, esprimono anche un bisogno, una necessità di fondo. Ed è entrando empaticamente dentro l’animo di questi personaggi anche sgradevoli che comprendiamo le loro azioni».

BM: Se dovessi metterlo a confronto con i film di supereroi americani?
CS: «Sai, negli Stati Uniti sono così abituati a vedere supereroi che, anche se non li condisci con personaggi a tre dimensioni o situazioni emotivamente coinvolgenti, ci credi lo stesso. Qui in Italia è un po’ più complicato. Abbiamo dovuto fare un lavoro molto delicato per condurre lo spettatore dentro questo mondo. Il risultato è, secondo me, un film che riesce a mescolare perfettamente il mondo Marvel con una poetica “pasoliniana” sui personaggi».

Leggi l’intervista completa su Best Movie di febbraio, in edicola dal 26 gennaio

© RIPRODUZIONE RISERVATA