Lo Hobbit, ecco perché è un grande film
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Lo Hobbit, ecco perché è un grande film

Cristiano Bacci ci accompagna in un viaggio per scorprire tutte le bellezze della Terra di Mezzo nel nuovo film di Peter Jackson

Lo Hobbit, ecco perché è un grande film

Cristiano Bacci ci accompagna in un viaggio per scorprire tutte le bellezze della Terra di Mezzo nel nuovo film di Peter Jackson

Dopo avervi spiegato “Perché secondo noi Lo Hobbit è una delusione“, ora è giunto il momento di sentire un’altra campana, questa volta a favore del primo capitolo della nuova trilogia fantasy di Peter Jackson. A parlarcene è Cristiano Bacci, pronto a prenderci per mano e a svelarci tutte le bellezze che si nascondono nella Terra di Mezzo.

“Dopo dieci anni precisi da quando Peter Jackson ci aveva spinti al nostro lungo viaggio, ci ritrovammo a guardare un panorama familiare. Eravamo a casa…”

Chiariamoci: chi scrive, questo film lo aspetta da quando vide scorrere sullo schermo i titoli di coda de “Il Ritorno Del Re” e ne ha seguito la produzione sin dagli esordi; inutile negare quindi che le aspettative erano a livelli elevatissimi, complice anche una campagna di promozione attuata congiuntamente dalle Major produttrici (Warner Bros, Metro Goldwin Mayer e New Line Cinema) e dalla Nuova Zelanda; sicuramente tra le più maestose e dispendiose che si siano mai viste: il logo de “Lo Hobbit” campeggiava ovunque, dalle scatole di cereali alle fusoliere degli aerei. Qual è il rischio di un tale approccio, quasi aggressivo, nei confronti del pubblico? Quando l’hype è così elevato è più probabile una caduta rovinosa che un successo planetario.

Partendo dal presupposto che il film perfetto non esiste (neanche la Trilogia era scevra da difetti), è giunta dunque l’ora di tirare le somme.

Da una parte abbiamo J.R.R. Tolkien, professore di Oxford che negli anni ’20, ormai lontani dal punto di vista cronologico e anche più da quello ideologico, scarabocchiò sul compito di un proprio studente la frase poi divenuta il più potente simbolo del mondo creatosi nella sua mente e che lui ebbe la generosità di trascrivere anche per noi: “In a hole, in the ground, there lived a hobbit”.

Dall’altra abbiamo Peter Jackson, regista neozelandese che si è fatto le ossa a suon di cortometraggi e film splatter.

La domanda sorge spontanea: “Come diamine sono riusciti ad incontrarsi questi due?”

Il merito va (secondo me) ad entrambi: a Tolkien per averci fornito così tanto materiale, per essere stato così minuzioso nella creazione del mondo della Terra Di Mezzo da averci fatto più volte pensare di poter andare ad aprire l’Atlante e trovarla lì, esattamente tra le sconfinate steppe della Russia e i verdi paesaggi collinari inglesi, passando per le più maestose città orientali e per gli austeri borghi medievali italiani. A Jackson va il merito di trasportare tutto ciò ad un nuovo livello, riuscendo così a fondere la propria visione dell’opera con quella della stragrande maggioranza dei lettori. Il risultato di questo connubio lo si può trovare scritto a caratteri cubitali nell’albo della Storia del cinema.

 

Casa è ormai dietro di te, il mondo è davanti.

Dieci anni dopo il successo della Trilogia cinematografica, infinite lungaggini legali e problemi di salute, Jackson si ritrovò inaspettatamente al timone di una nuova avventura: si narra di Bilbo Baggins, zio del Frodo del “Signore Degli Anelli” il quale dalla tranquillità della sua amena vita nella Contea si vede altrettanto inaspettatamente catapultato in un viaggio pieno di incognite. Trovate qualche analogia tra queste due situazioni? Fate bene perché se “Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato” è un grande film, lo si deve anche a questa “coincidenza” benevolmente voluta dal destino che ha vestito Peter Jackson dei panni di Bilbo, inizialmente titubante e forse anche un po’ impaurito dalla mole di ciò che avrebbe voluto dire realizzare una nuova trilogia con alle spalle “Il Signore Degli Anelli”; ma evidentemente anche Sir Peter ha ereditato un qualche gene Tuc e quando si vide quasi costretto a scendere in prima linea nella realizzazione del film si è deciso ha percorrere questa nuova lunga strada con il consueto entusiasmo che lo caratterizza.

Prima di entrare nel merito della nostra analisi è necessaria una premessa:

Lo Hobbit NON è Il Signore Degli Anelli; seguendo a distanza lo schema di una fiaba classica, Tolkien lo scrisse negli anni ’20, quando il suo spirito e il suo corpo non erano ancora stati scossi dagli orrori della Seconda Guerra mondiale che ebbero invece un ruolo importante durante la stesura della Trilogia. La Terra Di Mezzo de “Lo Hobbit” è ancora un luogo fantastico dove “Il Male” non è ancora così presente; tutta la storia quindi ha un tono più spensierato, avventuroso, i protagonisti non hanno sulle proprie spalle le sorti della Terra Di Mezzo anche se dovranno comunque affrontare diverse sfide e pericoli.

 

“Dunque: da dove cominciare?”

Repetita iuvant: “Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato” non è un film perfetto, ma neanche un completo disastro come sentenziato da alcuni pseudo-critici dalle cui penne sono uscite parole ingiustamente severe. Certo, altri hanno detto che questo è un film “fatto da fan per i fan” e per certi versi si può anche essere d’accordo, ma da qui a gettare via tutto nell’indifferenziato ce ne passa.

L’approccio di Peter Jackson è stato conservativo e innovativo al tempo stesso; si è cercato cioè di mantenere intatta la struttura del romanzo originale rendendola al contempo fruibile ad un pubblico molto ampio, riempiendo i buchi della storia con parti delle appendici di ISDA. La cosa appare sicuramente sensata dato che a differenza di Tolkien PJ non poteva prescindere dalla sua opera precedente né poteva mostrare determinati eventi senza spiegarne un minimo il motivo per cui essi si verificano. Ad esempio nel libro Gandalf lascia spesso la compagnia dei nani senza dar loro alcuna spiegazione; ciò può avvenire sulla pagina scritta, certo non in un film. Le aggiunte di Peter Jackson e delle sue co-sceneggiatrici Philippa Boyens e Fran Walsh si rivelano quindi funzionali all’intreccio narrativo in quanto ci offrono, o dovrebbero offrirci, una visione più “rotonda” della vicenda.

 

“Mio caro Frodo, una volta mi hai chiesto se ti avessi raccontato tutto riguardo alle mie avventure… Anche se posso affermare onestamente di averti detto la verità, magari ho tralasciato qualcosina…”

Sono state mosse critiche alla scelta del “doppio prologo” costituito dalla sequenza in cui un Bilbo ormai anziano scrive il resoconto della sua avventura nel “Libro Rosso” al cui interno egli comincia narrando della caduta di Erebor per opera del drago Smaug. La scelta dell’uso del voice-over ci riporta in modo un po’ ingenuo alla sequenza iniziale de “La Compagnia Dell’Anello”, dov’era la Dama Galadriel a fare il sunto della fine della Seconda Era. L’espediente sarà anche efficace per chi magari è nuovo al mondo della Terra Di Mezzo, ma personalmente speravo in un qualcosa di più originale e dal sapore meno “informativo” da quel punto di vista. Si iniziano inoltre ad intravedere alcuni elementi sapore decisamente retorico (carattere che spesso tornerà un po’ sulla lingua nell’arco del film) come la bambola in fiamme o frasi del tipo “Moriremo tutti!”. D’altra parte tutto è subito perdonato appena si ode Bilbo pronunciare: “In un buco, nel terreno, viveva uno hobbit…” e vediamo Frodo spuntare da una delle stanze di Casa Baggins quasi ammiccando nella nostra direzione come per voler dire: “Sì, non state sognando, siete tornati”.

Mi ha lasciato un po’ più perplesso il flashback relativo alla tra orchi e nani per la riconquista di Erebor, durante la quale ci viene presentato il “villain” di questo primo capitolo, Azog, “l’orco pallido”. Per alcune scelte registiche e fotografiche questa sequenza ricorda molto infatti “300” di Zach Snyder e persino le azioni dei protagonisti e le parole del narratore Balin hanno qualcosa di familiare in tal senso; sinceramente non vedo l’utilità di un simile riferimento che appare quindi un po’ sganciato dal tono generale del film. Posso presumere tuttavia che ciò sia uno dei risultati dell’influenza di Guillermo Del Toro in fase di screenplay; lo stesso Azog infatti ha ben poco di Jacksoniano nel suo aspetto.

“Sceglierei anche uno solo tra questi nani piuttosto che un esercito dei Colli Ferrosi, perché quando ho chiamato loro hanno risposto. Lealtà, onore, un cuore volenteroso, non posso chiedere più di questo.”

Ma veniamo a quella che è stata definita “l’anima della vicenda”, vale a dire la compagnia dei nani; Tolkien non aveva prestato molta attenzione alla caratterizzazione specifica di ognuno di loro presentandoceli in modo generico come tipi testardi, orgogliosi, leali. Se anche Jackson avesse mantenuto tale atteggiamento ci saremmo trovati davanti a tredici macchiette tutte uguali e di profondità inconsistente; per ovviare a questo problema che, per sua stessa ammissione, era uno di quelli che più lo spaventava, gli sceneggiatori in sede di scripting hanno iniziato a differenziare tali personaggi dotando ognuno di connotazioni fisiche e caratteriali differenti. Non contento di ciò Peter Jackson si è spinto ancora più in profondità, concettualizzando armi, stili di combattimento estremamente personalizzati e, con l’aiuto del compositore Howard Shore, ha persino sviluppato dei piccoli temi e sonorità differenti per ognuno dei nani. Non è vero, come dicono alcuni, che alla fine del film non ci si ricorda “chi fosse chi”; certo, nonostante l’impegno e la cura profusi può darsi che ai meno attenti qualcosa possa sfuggire, ma è bene ricordare che “Un Viaggio Inaspettato” è solo il primo di tre film e quindi si può ritenere che le personalità dei nani verranno ulteriormente differenziate e approfondite in futuro. In questo primo capitolo spiccano maggiormente Thorin, il capo della compagnia, interpretato con notevole regalità dall’attore inglese Richard Armitage, il saggio e acuto Balin e i coraggiosi fratelli Fili e Kil, membri più giovani dell’ “allegra combriccola” per usare le parole di Gandalf. Sì perché i nani di Peter Jackson si comportano come ragazzini rispetto ai loro ben più austeri antenati; qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che ad un certo punto della cena si mettano a ruttare… E’ vero, questo particolare non è presente nell’opera di Tolkien ma se ci riflettiamo bene si tratta di un aspetto plausibile per un popolo abituato a vivere nelle profondità delle montagne, dove il massimo che si possa chiedere è “grandi falò, birra con malto, bistecca stagionata con l’osso…”; la particolarità che rende “grandi” i nani di Tolkien sta appunto nel dualismo tra la loro presenza fisica, rozza e scorbutica, e i frutti del loro ingegno di mastri armaioli e gioiellieri.

Se aggiungiamo che i nani di questa storia sono stati costretti a lasciare la propria dimora per vivere da esuli e reinventarsi come mercanti, calderai e giocattolai, risulta quantomeno ammissibile che essi abbiano sviluppato una certa dose di eccentricità. Ciò tuttavia non deve trarre in inganno perché appena vedono in pericolo i propri compagni (vecchi o nuovi) o alla loro mente si affaccia il ricordo della propria dimora perduta, sono pronti a combattere con una risolutezza e una determinazione degne di eroi mitologici, qualunque sia l’avversario che si trovano di fronte e a prescindere da un possibile esito infausto della propria “missione”.

 

“Le avventure, brutte fastidiose scomode cose! Fanno far tardi a cena!”

Inutile spendere troppe parole sul Bilbo di Martin Freeman: il ruolo gli è stato praticamente cucito addosso, tanto che Peter Jackson è stato disposto a dividere le riprese in due blocchi per garantire all’attore di tornare nella sua Inghilterra a girare la serie targata BBC: “Sherlock”. Tipico eroe riluttante, Bilbo non aspira a gloria e onori ma si accontenta di avere la pancia piena e la pipa a portata di mano, ricetta del quieto vivere tipico degli hobbit; è qui che entra in gioco Gandalf, lo stregone ancora una volta interpretato dal superbo Ian McKellen, pronto a dare allo hobbit “una spintarella fuori dalla porta”. E’ attraverso la visione di Bilbo che noi viviamo quest’avventura e ci ritroviamo a sgranare gli occhi per lo stupore di fronte alle architetture di Gran Burrone, ad allarmarci anche solo a sentir parlare di orchi o lupi, a provare pietà nei confronti di una strana creatura… Siamo con lui quando infine egli scopre con stupore di avere il coraggio di ergersi a difesa dei propri compagni, senza retorica stavolta, senza per questo perdere la propria semplicità e l’approccio un po’ naif degli hobbit. Ritengo che Peter Jackson abbia colto perfettamente nel segno in questo caso, andando forse ancora più in profondità rispetto al libro.

 

“Questi sono mannari di Gundabad, ti soverchieranno!”

“E questi sono conigli di Rhosgobel, vorrei che ci provassero…”

Al centro di numerose discussioni è stato posto il personaggio di Radagast un eccentrico stregone che vive la propria vita preferendo la compagnia degli animali a quella degli uomini, una sorta di frate francescano reinventato con humor dallo scozzese Sylvester McCoy il quale è stato lasciato da Jackson molto libero di improvvisare nella sua performance attoriale un personaggio sicuramente comico, ma mai ridicolo. Il suo ruolo è prevalentemente quello di collegare più fasi del film tra loro al cui centro vi è l’arrivo della compagnia a Gran Burrone, una sorta di evoluzione del “McGuffin” di Alfred Hitchcock, un pretesto per far progredire la storia suo propri cardini. Espedienti di questo tipo si usano da quando è stato inventato il cinema di narrazione e finché non appaiono troppo evidenti come tali non ritengo si debba star troppo a discutere. Radagast è un personaggio che nel suo piccolo funziona, anche se nel libro viene citato in una fase successiva del viaggio.

Sia nel “Signore Degli Anelli” che ne “I Racconti Incompiuti” emerge in modo piuttosto chiaro l’antipatia che Saruman ha nei confronti dello stregone bruno, antipatia che spesso sfocia nel disprezzo soprattutto a causa dell’abisso che divide i due Istari in fatto di costumi: Saruman è aristocratico, altero, forse anche un po’ arrogante, mentre Radagast, come già accennato prima, “è un grande stregone… a modo suo” per citare le parole di Gandalf. Risulta quindi comprensibile nel film la battuta in cui Saruman esorta Gandalf a diffidare di Radagast per il suo “uso eccessivo di funghi allucinogeni”; d’altra parte non è che egli fosse nuovo a questo genere di eufemismi, ne “La Compagnia Dell’Anello” infatti accusa Gandalf di essere stato troppo preso dall’erba pipa dei Mezzuomini la quale a suo dire gli ha “rallentato il cervello”.

 

“Sarò sconfitto.”

L’unico personaggio che non sono riuscito a digerire è il Grande Orco, capo dei goblin che rapiscono i nani riparatisi in una caverna che credevano disabitata. Intendiamoci, dal punto di vista tecnico niente da eccepire, Barry Humphries ha prestato anima e corpo a questo personaggio attraverso la performance-capture, come sempre strepitosa; il problema è sta piuttosto nella sceneggiatura che tratteggia il Grande Orco veramente come una macchietta, mettendogli in bocca frasi che almeno nella versione italiana hanno un che di posticcio o estremamente retorico. Se prendiamo ancora una volta in mano il testo di Tolkien possiamo con facilità comprendere che proprio in virtù dell’atmosfera ancora piuttosto tranquilla (prima del ritorno di Sauron per intenderci), anche orchi e goblin più che esseri malvagi e crudeli al massimo possono essere maligni e repellenti; tale differenza è ben visibile anche se mettiamo a confronto i goblin visti ne “Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato” e quelli presenti nella Trilogia di Jackson: i primi si prendono infatti meno sul serio, sono più sconclusionati, stupidi, a volte addirittura quasi simpatici (avete presente il “nanogoblin” messaggero?) rispetto ai “colleghi” più mostruosi. Tutto bene fin qui, ma farli scadere nel ridicolo mi pare una mossa azzardata perché rischia di compromettere un po’ l’intero scenario… Per fortuna il ruolo del Grande Orco è molto limitato e quindi non inficia troppo il risultato finale.

 

“Che cosa sei tu, uno scoiattolo fuori misura?”

La sequenza in cui la compagnia fa lo spiacevole incontro con i Troll è stata modificata rispetto all’originale per renderla più spettacolare e godibile; tale scelta appare sensata in quanto ci mostra che i nani non sanno solo mangiare e ridere sguaiatamente, ricordandoci che appartengono ad una stirpe di orgogliosi guerrieri. Peter Jackson ha diretto questa scena con grande perizia e cura riuscendo a mantenere intatti i punti salienti della sua “microtrama”:

• Bilbo che viene catturato;

• i nani vengono messi in dei sacchi pronti per essere cucinati;

• il provvidenziale arrivo di Gandalf

Tra i primi due punti infatti PJ inserisce una grandiosa sequenza di combattimento tra i nani e i Troll; coreografata praticamente alla perfezione, essa è di una forza talmente prorompente da portare lo spettatore ad alzarsi in piedi e gettare la propria dignità nell’immondizia gridando incitamenti nei confronti dei nani (il sottoscritto in tal senso ha avuto una tentazione a stento repressa).

“Non è un semplice temporale, è una battaglia tra Tuoni!”

Preferirei non soffermarmi sulla sequenza degli “Enigmi Nell’Oscurità” che vede protagonisti Bilbo e Gollum interpretato attraverso la magia della performance-capture dal grande Andy Serkis sia perché ormai si sono spesi tutti gli elogi possibili (che mi trovano ampiamente d’accordo) che perché non si notano grandi differenze con l’originale versione cartacea.

Focalizzerei quindi la mia attenzione su una sequenza che ho trovato particolarmente evocativa e che stranamente non ho trovato menzionata spesso nelle varie recensioni, quella della “Battaglia tra Tuoni”. Percorrendo un sentiero a precipizio su un’alta montagna la compagnia si imbatte in un violentissimo temporale durante il quale dalle pareti circostanti si staccano dei giganti di pietra che iniziano a scagliarsi contro enormi proiettili di roccia; Tolkien nella sua narrazione fa solo un accenno a questo evento ma Peter Jackson coglie l’occasione per innalzare ulteriormente i livelli tecnici e drammatici del film: pare quasi che siano gli immensi duellanti a provocare i tuoni stessi; in confronto a loro i nostri personaggi sono nullità sballottate dal vento e dalla pioggia, passivi, quasi sconfitti dalla forza di una Natura che in questa sequenza è la vera protagonista.

 

In pillole:

Galadriel – smettiamola di dire che è stata inserita perché non si può fare un film senza un personaggio femminile; piuttosto si dica che “non è facile” perché esce un po’ fuori dallo schema delle tre A (Avventura, Azione e A-tette), non me ne vogliano le donne né mi si accusi di maschilismo ma esistono grandi film che funzionano benissimo anche senza di loro (qualcuno si ricorda di “Master & Commander – Sfida Ai Confini Del Mare”?). La sua partecipazione è dovuta piuttosto alla volontà di Peter Jackson di rendere ben saldo il legame tra questo film e la Trilogia.

Il Bianco Consiglio – Anche la trama parallela che porterà ad un primo scontro con il Negromante/Sauron nei prossimi film si inserisce come trait d’union con la Trilogia, così come le ipotesi riguardo ad una possibile alleanza di Smaug con tale Negromante e le cause degli strani incontri fatti dalla compagnia nel suo cammino verso Erebor. La Sono a mio avviso tutte ipotesi plausibili e anche parecchio intriganti, sono curioso di sapere come ciò si svilupperà.

Pagliacciata – “Lo Hobbit – Un Viaggio Inaspettato” non solo non è un film comico ma neanche vuole esserlo: le goliardate dei nani, alcune azioni poco credibili come quella di Gandalf che taglia la testa ad un goblin e poi gliela rimuove gentilmente dal collo con il proprio bastone, e i vari momenti di ingenuità sono tutti frutto della volontà di non appesantire mai troppo la trama e mantenere quindi il più possibile un tono più simile a quello del libro, soprattutto nella prima parte del film. Tuttavia non si vuole far ridere bensì sorridere e anche qui, secondo me, l’obiettivo è stato centrato alla perfezione.

Per ognuno dei punti che ho trattato si potrebbero aprire discussioni che potrebbero andare avanti per giorni, io ho quindi cercato di analizzare il rapporto tra film e libro approfondendo e sintetizzando allo stesso tempo; spero solo che chi abbia avuto il coraggio di leggere fino a qui ci abbia trovato qualche spunto interessante per elaborare un pensiero soggettivo nei confronti di questo primo capitolo di quella che si preannuncia essere una nuova, grande, opera cinematografica.

“Lontano su nebbiosi monti gelati
in antri oscuri e desolati.
Ruggenti pini sulle vette,
dei venti il pianto nella notte.
Il fuoco ardeva, fiamme spargeva
alberi accesi, torce di luce.”

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