Il dibattito si accenderà con l’arrivo alla Mostra di Venezia di Bella addormentata, l’ultima fatica di Marco Bellocchio, che racconta la storia di alcuni personaggi durante gli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro.
Ma già ora, nella svizzera Locarno, nel Paese dove il suicidio assistito è legale, il tema fa discutere con la proiezione in Piazza Grande di Quelques heures de printemps (Qualche ora di primavera), il nuovo film di Stéphane Brizé, presentato ieri alla stampa al 65esimo Festival del Film.
Anche se, secondo quanto dichiarato dallo stesso regista, «il suicidio assistito non sia il soggetto della pellicola, ma solo un espediente drammaturgico per stabilire una data di morte per uno dei due personaggi principali». Ovvero una donna forte, razionale e severa (con se stessa, il cane, i pochi amici e i suoi famigliari), Yvette (Hélène Vincent), affetta da un tumore al cervello incurabile, che ha un rapporto conflittuale con il figlio 48enne, Alain (Vincent Lindon), appena tornato a casa dopo 18 mesi di carcere per contrabbando di droga.
Brizé fotografa passo dopo passo, con un realismo crudo che sfiora il documentario, il difficile ritorno alla “normalità” di un uomo senza lavoro e prospettive, che fatica a perdonare se stesso. La totale mancanza di comunicazione con la madre (ogni tentativo sfocia in un litigio), sicuramente antecedente alla prigione, non fa che acuire il suo disagio interiore. I silenzi tra i due fanno più male di un pugno allo stomaco. Soprattutto quando Alain scopre l’effettivo stato di salute della madre, che oltretutto ha già preso accordi con un’organizzazione svizzera per procedere con il suicidio assistito. Una scelta alla quale l’uomo è incapace di opporre qualunque argomentazione, dato che per lui la vita è un disastro e ha perso senso e valore. Così, non resta che il consenso o, meglio, il rispetto, la comprensione e, paradossalmente, un primo passo verso la riconciliazione. Per qualche ora di primavera.
D’altra parte, la sicurezza della donna è (apparentemente) implacabile. «Ci ho riflettuto. E poi finalmente potrò decidere qualcosa nella mia vita» dice al figlio pelando patate (nella foto la scena), ma quando è sola piange nel suo letto. Un’affermazione perentoria. Alla quale non si oppone neppure il regista, che sembra quasi uno “sponsor” di Yvette, nonostante ufficialmente in proposito dichiari: «è una decisione intima, che tocca l’individuo nel profondo. Non ho nessun diritto di giudicare un gesto come questo». L’impotenza di Alain, la sua scelta di non intervento e, infine, il consenso costituiscono se non la presa di posizione, quantomeno il punto di vista più vicino a quello di Brizé. La cui bravura sta nella delicatezza con la quale ci fa entrare in intimità con i suoi personaggi, senza scadere nell’escamotage della lacrima facile. Il regista sceglie piuttosto di farci sedere a tavola, accanto a loro mentre due rappresentanti dell’organizzazione svizzera, illustrano tutta la procedura a Yvette. Un’empatia che si realizza anche per merito dei due straordinari protagonisti, che si congedano da noi senza clamore, con la loro piccola grande storia, che ci farà riflettere a lungo.
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