Radu Jude torna fuori concorso al festival svizzero, dopo aver vinto la scorsa edizione con Don’t Expect Too Much from the End of the World, con due peculiari documentari d’archivio: Eight Postcards from Utopia, raccolta di spot pubblicitari della televisione rumena, e Sleep #2, rielaborazione dell’omonima opera di Andy Warhol.
Quanto è durata la scelta degli spot in Eight Postcards from Utopia e quanti anni copre la vostra selezione?
Ferencz-Flatz: La selezione è stata la parte più difficile dell’intero progetto, dato che ha richiesto quasi tre anni di lavoro per trovare gli inserti. Alcuni di essi non erano direttamente disponibili al pubblico, quindi abbiamo dovuto contattare alcuni membri della troupe coinvolti. In alcuni casi avevamo i file senza audio o comunque di qualità pessima. Credo che il range temporale coperto dal film parta dai primi anni 90’ e si fermi intorno al 2008. Nel primo capitolo, dove si cerca di ricostruire la storia rumena, si parte da spot ironici sull’Antica Roma fino a inserti documentaristici.
Per Radu Jude: come la tua esperienza nel ramo dell’advertisment ha influenzato il tuo lavoro e come la pubblicità in generale ha influenzato il cinema?
Jude: La conseguenza più ovvia che mi verrebbe da indicare è il suo insediamento nel cinema mainstream riguardo il montaggio ipercinetico, ripreso anche dai videoclip. Ma è altrettanto vero il contrario, in quanto moltissimi commercials imitano generi cinematografici, spesso in chiave parodistica. Nel mio caso, Christian mi fece leggere dei saggi di Walter Benjamin che mi resero cosciente della produzione massiva di contenuti spazzatura e, avendoci direttamente lavorato, ho trovato subito attrazione a questo punto di vista.
Ferencz-Flatz: Sembra facile criticare questo tipo di contenuti audiovisivi per la loro cheapness estetica, ma sono interessanti come oggetto di studio sul come abbiano influenzato certe avanguardie, oltre che essere narrativamente interessanti, sovvertendo l’intreccio classico anche semplicemente nel momento dell’esibizione del prodotto. La pubblicità diventa quindi una rivisitazione modernista sul film di genere. Guy Debord era critico nei confronti del mondo dell’advertisment, ma gli riconosce un’irriverenza sovversiva.
Jude: Gli stessi studios cinematografici, fin dagli anni Cinquanta, inglobano dinamiche della pubblicità: si tratta di vendere un’immagine, un marchio, non più il singolo film, che diventa una pubblicità dello studio che l’ha prodotto, specialmente nel caso delle piattaforme streaming. Quando Netflix ha concluso il montaggio dell’ultimo film di Orson Welles, quello non era altro che una pubblicità alla piattaforma.
Riferendomi al titolo del film, pensate davvero che quella rappresentata dagli spot da voi scelti sia un’utopia alla quale la Romania di oggi ambisce?
Jude: Il titolo l’ha proposto Christian, io avrei utilizzato “City of the Sun”.
Ferencz-Flatz: Probabilmente no, ma comunque volevamo descrivere un mondo di fantasia attraverso gli otto capitoli. C’è una coerenza da fiction, ma anche reale, attorno a tutti questi contenuti, come se si delineasse una filosofia, un mondo vero e proprio. Indubbiamente però riflettono ansie e desideri della società di ieri e di oggi, nonché un’interpretazione onirica del decennio che rappresentiamo. Si tratta probabilmente più di un’analisi satirica sulle ambizioni di un popolo.
Jude: Il passato è sempre in qualche modo comico, guardandolo a posteriori, specialmente analizzando il modo con il quale veniva visto dai mass media. Anche in Italia immagino.
Per quanto riguarda Sleep #2, che mette in crisi la definizione di film, quali sono gli elementi che secondo voi rendono legittima tale definizione?
Jude: Sleep di Warhol è stato definito per questo motivo un “anti-film”, ma il fatto di essere anti-film comporta che possieda in qualche modo delle caratteristiche cinematografiche. Questa è una domanda applicabile ad ogni medium e che continua a ripetersi nel corso della storia e che in questo caso, richiede prima di rispondere alla domanda “cos’è il cinema?”. Definire le specifiche di un’arte è un atto forte. Non credo che il mio film sia così sovversivo, e che in qualche modo si inserisca in una tradizione di desktop movie e slow cinema.
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