Si può fare un film sul lockdown senza rimanere impantanati nelle pastoie – non solo narrative, ma anche estetiche e morali – del lockdown? Deve esserselo chiesto Steven Knight (Peaky Blinders, La promessa dell’assassino, l’assai sottovalutato Allied) scrivendo il copione di Locked Down, film sulla reclusione dovuta alla pandemia che curiosamente, e un po’ paradossalmente, ha un titolo simile al protagonista di un altro lungometraggio da lui sceneggiato, Locke, interpretato da Tom Hardy.
Se in quel caso la stasi era un dispositivo narrativo legato a un uomo che vedeva la propria vita andare in frantumi nell’arco di nemmeno novanta minuti dritti filati, rimanendo tra l’altro sempre al telefono nell’abitacolo della sua auto, stavolta siamo all’alba delle prime chiusure dovute al COVID-19. Proprio quando decidono di separarsi, Linda (Anne Hathaway) e Paxton (Chiwetel Ejiofor) si ritrovano costretti a vivere insieme: Londra è vuota, i semafori sono accesi, ma in strada camminano solo ricci alle prese col loro ultimo, disperato tentativo di riguadagnare la libertà. Gli unici rumori udibili sono quelli delle sirene delle ambulanze, ormai mestamente reiterate come i trilli dell’ennesima videochiamata Zoom.
Locked Down è chiaramente un film da camera e ambientato essenzialmente in più camere di uno stesso appartamento londinese, e reca su di sé i segni visibili di un prodotto concepito, scritto, girato, montato e (perfino) distribuito in contesto pandemico. Nonostante tutto, però, ha una leggerezza imprevedibile e imprevista, una sapienza nel gestire i dettagli solo in apparenza mal riposti e un respiro narrativo che fortunatamente non sono né ombelicali né asfittici. Chi ha legittimamente detestato Malcolm & Marie, ad esempio, troverà qui dei personaggi che non sono manichini arty caricati a pallettoni da pose forzatamente cool e in bianco e nero, ma persone reali, attanagliate con molta più autenticità dal dualismo tra implosione ed esplosione.
Individui magari anche abbienti e privilegiati nei loro loft, ma alle prese con traumi e ferite spaventosamente ordinari, con tenerezze o meschinità private, lavorative e sentimentali che la reclusione ha accentuato nel bene o nel male, limitandosi impassibile ad accelerare o recuperare processi sibillini già in atto. Locked Down non è insomma, e per fortuna, mero cinema da pandemia imprigionato nella cartina da tornasole dell’instant movie.
La regia di Doug Liman (The Bourne Identity ma anche Mr. and Mrs. Smith: un caso?) è ovviamente di servizio rispetto a un copione che non risparmia nessuno dei tòpos del lockdown, ma almeno li declina – ed è merito della scrittura tiepida ma affilata di Knight – in una spirale concentrica aperta a trasformazioni e preoccupazioni di coppia e, va da sé, a piccole e grandi nevrosi: sguardi persi nel vuoto in videochat coi calici ancora in mano, figli di Ben Stiller che prendono in giro il Vermont di Bernie Sanders, stato-roccaforte dei wasp americani, dicendo solo che fa schifo, poesie di D.H. Lawrence declamate e piatti sbattuti in strada, inconfessabili e ormai ridicole bandane di un tempo riciclate oggigiorno come mascherine (e si potrebbe continuare).
Per gli attori un film così non è solo una vetrina ma anche una palestra attiva, con monologhi che rimangono validi anche se estrapolati dalla premessa in virtù della quale “qui una volta erano tutti balconi” e “ne usciremo migliori”. E a farci una gran figura è soprattutto un’attrice troppo spesso sottovalutata (anche a causa di tante scelte di filmografia al ribasso) come Anne Hathaway, che come interprete si riavvicina un po’ ai fasti drammatici e tormentati di quel capolavoro di scrittura intima e sommessa che è Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme: basti vedere la gestione in sottrazione della sequenza di licenziamento da remoto, le tirate identitarie sul fumo da sigaretta come strumento per lasciar nuotare i pensieri alla larga da ogni correttezza politica forzata, le “storie di Parigi” che dette ad alta voce danno da pensare e non è, non può essere solo nostalgia. Ejiofor gioca abilmente di rimessa, mentre il film lo fa quasi tutto lei.
Nell’ultimo quarto di film ambientato ai magazzini Harrods, d’ambientazione non domestica a differenza degli altri tre, c’è infine una svolta da heist movie che a molti sembrerà scollata e poco plausibile, e magari lo è anche (i lussuosi grandi magazzini, tra l’altro, non avevano mai concesso di girare al loro interno). Se considerata sul piano simbolico più che su quello realistico, però, perlomeno acquista se non un senso quantomeno una rilevanza; nel passaggio, cioè, da una forma di accettazione congestionata a un’eccitazione condivisa: un’auspicabile ripartenza nella quale lasciare che qualche consapevolezza filtri, se non in maniera febbrile quantomeno vigile, con uno slancio di intelligenza quieta e romantica che Linda e Paxton fanno propria loro per primi.
Locked Down, uscito negli Stati Uniti su HBO Max, è ora dsponibile per l’acquisto e il noleggio premium in Italia su Apple Tv app, Amazon Prime Video, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV e per il noleggio premium su Sky Primafila e Mediaset Play Infinity.
Foto: Warner Bros.
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