Lontano lontano, la recensione dell'ultimo film con Ennio Fantastichini
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Lontano lontano, la recensione dell’ultimo film con Ennio Fantastichini

Da oggi nelle sale il nuovo lungometraggio diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di ferragosto. Nel cast anche Giorgio Colangeli

Lontano lontano, la recensione dell’ultimo film con Ennio Fantastichini

Da oggi nelle sale il nuovo lungometraggio diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di ferragosto. Nel cast anche Giorgio Colangeli

Lontano lontano
PANORAMICA
Regia (2.5)
Interpretazioni (3.5)
Sceneggiatura (3)
Fotografia (2.5)
Montaggio (2.5)
Colonna sonora (2)

Giorgetto (Giorgio Colangeli) e il professore (Gianni Di Gregorio) sono amici da sempre. Tra un bicchiere di vino (rigorosamente bianco) e una passeggiata discutono della pensione che non basta mai e che probabilmente dovrebbero spendere altrove, in un paese straniero in cui la vita costi meno e il ritiro sia più dolce. A loro si aggiunge Attilio (Ennio Fantastichini) che una pensione non ce l’ha ma sopravvive restaurando mobili fuori porta. Dopo aver consultato un “esperto” di pensioni statali all’estero (Roberto Herlitzka), optano per le Azzorre…

Lontano lontano è il nuovo film dell’attore e regista Gianni Di Gregorio, in passato collaboratore di Matteo Garrone e tra gli autori della sceneggiatura di Gomorra, che è esploso dietro la macchina da presa alle soglie dei sessant’anni col celeberrimo Pranzo di ferragosto, riunione di famiglia al femminile in una Trastevere torrida e irresistibile. Lontano lontano, a dodici anni di distanza, torna a parlare della terza età ma dalla prospettiva di tre uomini ormai in là con gli anni, alle prese col sogno di abbandonare la routine ingrigita andando alla ricerca di condizioni economiche e sociali più galvanizzanti.

Il quarto film di Di Gregorio porta a compimento l’idea di cinema del suo autore, ancorato a una poetica delle piccole cose che trova in un’attitudine dimessa e strampalata la sua principale ragion d’esistere. Lontano lontano è un lungometraggio che riesce a trasformare in qualità le sue esilità di fondo attraverso un buffo e stropicciato esistenzialismo da sempre caro a Di Gregorio, tra abbozzate idiosincrasie e teneri rimpianti.

Si tratta anche di un film molto romano nell’approccio pigro e caracollante alla vita e negli spazi che setaccia: lo storico bar San Calisto a Trastevere, la  scorribanda fuori porta in del di Tor Tre Teste, il personaggio di Giorgetto “che non è mai uscito da Porta Settimiana”. Di Gregorio ha ancora una volta il pregio di parlare di ciò che conosce meglio, di aderire alle proprie radici anagrafiche e antropologiche con la svagatezza di una sorta di Jacques Tati capitolino.

Il suo umorismo trascende il più delle volte la gag fisica e verbale per farsi portatore di una sguardo più ampio sulla realtà, di una precisa postura nello stare al mondo coccolando una quotidianità fatta di birrette con gli amici, accennati tentativi di conquiste sentimentali (in questo caso col personaggio di Galatea Ranzi, ovviamente sempre al bar, osservatorio privilegiato delle esistenze altrui) e visite mediche dal tratto autobiografico e dunque anche di morettiana memoria.

Il vero punto di di forza di Lontano lontano è però soprattutto la chimica invidiabile e l’affiatamento tra i tre interpreti, che trasuda di appassimento di ambizioni e speranze ma anche dell’umanità di una volta, quella dal sapore rustico e antico, sottratta al caos incessante e martellante della contemporaneità. E altrettanto “sostenibile”, a metà tra la malinconia agrodolce e la poesia a chilometro zero, è non a caso il modo di raccontare Roma e i suoi scorci tenui e ovattati.

Se Di Gregorio gioca come spesso gli accade di rimessa e Colangeli lavora sull’indurimento e sulla scorza ruvida del suo personaggio, a svettare, in una chiave più energica e vigorosa, è l’Attilio di Ennio Fantastichini, qui all’ultima interpretazione prima della sua scomparsa: un uomo che ha perso per strada la figlia (Daphne Scoccia) per andare in moto in Afghanistan e dedicarsi a collazione totem della tribù Cherokee e che, al colmo della sua mal riposta sindrome da Peter Pan, diventerà il cuore morale del film: il motore di una semplicità (e quindi anche di una maturità) da dover agguantare a fatica, oltre ogni eccesso adolescenziale fuori tempo massimo.

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